L’installazione “Dal Giorno alla Notte” di Felice Levini è stata inaugurata presso l’Area Archeologica e Museo Nazionale dell’Antica Città di Cosa, ad Ansedonia. È il secondo progetto della quinta edizione di Hypermaremma. Ecco le foto e il testo critico di Massimo Belli
È stato inaugurato sabato 17 giugno il progetto “Dal Giorno alla Notte” di Felice Levini per la quinta edizione di Hypermaremma. Un’installazione site specific ideata per il Parco Archeologico dell’Antica Città di Cosa, ad Ansedonia.
Dal Giorno alla Notte racconta la storia dell’antica colonia fondata dai romani sulla sommità della collina di Ansedonia nel 273 a.C. dopo la conquista di Vulci e dei territori etruschi vicini.
Unendo mitologia e simbolismo, Felice Levini concepisce uno scenario metafisico tra le rovine archeologiche e i resti dei templi romani immaginando una moltitudine di segnali divini che, come saette, indicano inequivocabilmente ai conquistatori il luogo sacro agli dèi.
L’artista recupera, con la sua opera, l’inestricabilità di vita e di religione tipica del mondo romano, segnata dalla continua attesa di segnali divini.
Dodici frecce ciclopiche di colore rosso fuoco trafiggono il suolo del Parco Archeologico. Insieme alle frecce, appaiono sparse tra le rovine dei templi altrettante lastre di pietra che evocano i nomi delle dodici principali divinità romane: Apollo, Cerere, Diana, Giove, Giunone, Marte, Mercurio, Minerva, Nettuno, Venere, Vesta e Vulcano. Segnalazioni e apparizioni repentine che si rivelano al popolo di Roma senza preavviso “dal giorno alla notte”.
Le immagini compongono un codice simbolico ed ironico che fa della contaminazione dei linguaggi, dell’innesto e della lucidità la sua cifra stilistica. Nei contrasti, nelle contrapposizioni, nelle scomposizioni e nei ribaltamenti, la sua opera si rinnova continuamente generando inusuali significati, rivelando così spazi inediti di interpretazione. L’artista attinge con disinvoltura dalla letteratura, dalla mitologia, dalla natura così come dalla sua sfera più intima e personale.
L’artista Felice Levini
Classe 1956, Felice Levini, artista dalla manualità classica e dalla poetica ironica e pungente attraverso il suo lavoro, mette in scena episodi della vita mostrandone il lato irriverente e incalzante. Artista colto nei riferimenti – dal classicismo alla storia dell’arte, fino alla mitologia e alla storia sociale italiana, Levini ha agitato e preso parte alla scena contemporanea italiana di secondo Novecento lavorando principalmente a Roma, Torino e Milano con istituzioni di primo piano. L’artista intrattiene un dialogo artistico con le opere di Alighiero Boetti e Gino De Dominicis, che cita e riprende in diversi lavori. Giovanissimo, nel 1978 apre uno spazio autogestito dagli artisti in via Sant’Agata dei Goti a Roma insieme ai colleghi e amici Giuseppe Salvatori e Claudio Damiani al fine di dare luogo a serate dedicate all’incontro fra arte, poesia e musica. Il progetto è stato recentemente approfondito al Palazzo delle Esposizioni di Roma in Dedicato| S. Agata de’ Goti 1978-1979. Nel 1980 è fra i primi artisti ad aderire al gruppo dei Nuovi-Nuovi patrocinato dalla critica di Renato Barilli. Partecipa a due Biennali – la XLIII del 1988 e la XLV del 1993 – e due Quadriennali, nell’86 e nel ’96. Il suo lavoro prosegue verso e all’interno del nuovo millennio, attraverso la collaborazione con numerose gallerie d’arte e istituzioni museali come: l’Acquario Romano (2002), La Galleria Nazionale (2013), Museo Macro (2016), Auditorium Parco della Musica di Roma (2016), Galileo Chini (2020) e l’Aranciera di Villa Borghese (2021).
TESTO CRITICO DI MASSIMO BELLI
«Se questo discorso sembra troppo lungo per essere letto tutto in una volta, lo si potrà dividere in sei parti». Sono queste le prime parole nelle quali ci si imbatte aprendo il lungo saggio pubblicato a Leida nel 1637 da un anonimo francese e intitolato Discours de la méthode. Si tratta di una sorta di introduzione a tre saggi congiuntamente pubblicati e riguardanti la geometria, la diottrica e le meteore. Parrà strano ma delle meteore, qui, non ci interessa nulla. Interessante invece venire a capo dell’anonimato di questo scrittore: René Descartes, ai più noto con il nome latinizzato di Cartesio. All’interno dei Discours de la méthode, oltre al celebre passaggio «Ego cogito, ergo sum, sive existo», prende vita la possibilità dell’uomo di rappresentare graficamente le dimensioni: vengono teorizzati gli assi cartesiani. Nascono dunque gli assi e il loro incrocio, nasce il piano orizzontale della vita e quello verticale dell’arte, nasce lo spazio e così il tempo nella nostra visualizzazione più canonica. A coronamento di questa nuova possibilità umana di leggere il mondo, l’autore ci indica perfino la direzione lungo la quale osservare gli eventi, “segnando” le due piccole spunte che trasformano questi assi in frecce. Ecco, dunque, prender forma l’immagine della freccia come vettore, indicazione, spostamento repentino; coronamento di un immaginario già fecondato da una storia e una mitologia truculente. Arma nota già nella preistoria, la freccia – il cui lemma romano sagitta appare di origine etrusca – non solo percorre vettorialmente uno spazio compreso fra due punti ma stabilisce anche una forte connessione fra questi due, chi la scocca e chi la riceve, generando una relazione immediata e intensa, talvolta fatale.
L’intera storia dell’uomo viene così a imperniarsi su due tipi di relazioni che la freccia instaura: quelle orizzontali, fra uomo e uomo, e quelle verticali, fra uomo e dio. Da quest’ultima relazione nasce un’immagine di freccia ancora diversa dalle precedenti: il fulmine, monito e segnale divino, connessione repentina fra cielo e terra. Felice Levini, una volta salito nei pressi del Capitolium che corona il Parco Archeologico dell’Antica Città di Cosa, rende omaggio a questa relazione verticale, capace di segnare la storia di un luogo che i romani elessero come sacro nel rispetto degli sconfitti che in quel medesimo luogo pregavano le loro divinità. Per far questo, Levini sveste i panni dell’artista per indossare quelli di Saturno, il Tempo. Dodici frecce metalliche, accese da un tono di rosso vivo che sfiora il vermiglione, trafiggono il suolo costellando l’Arce dell’Antica Città di Cosa di segnali divini inconfutabili.
Come reperti archeologici senza tempo, altrettante lastre marmoree recano i nomi delle divinità dell’Olimpo romano in lettere bronzee: senza alcuna soluzione di continuità, queste lastre affiorano dal terreno come moniti, segnalando la continuità del rapporto fra l’umano e il divino che risale agli albori delle civiltà del Mediterraneo. L’artista recupera il Capitolium romano, la fenditura rituale etrusca che vi risiedeva sotto, e le trasporta così dentro al contemporaneo da crear loro un passato. In questo modo il tempo si dilata, quasi fermandosi. Alzando lo sguardo verso le frecce si comprende allora che queste non sono altro che meridiane recanti i quattro assi, i Quattro punti cardinali. Come in un paesaggio metafisico, ci risulta ora impossibile comprendere un prima e un dopo rispetto a quanto ci si para davanti agli occhi. Le mura in opera poligonale del tempio, l’albero che le costeggia, le fondamenta dell’area dedicata a Mater Matutae non diventano altro che una quinta dechirichiana che invece di ospitare statue-manichino ospita segnali divini ridotti a geometrie euclidee: le frecce. Una volta assorbiti all’interno di questo tempo denso, l’artista ci riporta alla frenesia della realtà spostando ironicamente l’accento dell’opera sull’impatto cromatico. La luce, che egli cattura attraverso la verniciatura rossa, dialoga con l’ambiente circostante nell’unico tono di colore utilizzabile per creare un contrasto, per lanciare un segnale estetico. In questo modo viene rappresentata la luminosità tipica dell’intervento celeste, la stessa che si irradia sull’asta lignea che sorregge la tenda di Costantino nel Sogno magistralmente dipinto da Piero Della Francesca.
Emerge allora la rapidità folgorante dell’incontro, l’impossibilità del dialogo continuativo con il mondo divino ridotto a brevi segnali da interpretare, e dunque l’incommensurabile piccolezza che segna la precarietà umana e conferisce il titolo all’opera. Perché, se fra il tramonto e l’alba, come ci insegna un celebre film di Robert Rodriguez con Quentin Tarantino9 , potrebbe passare un’eternità, dal giorno alla notte, invece, potrebbe essere solo questione di qualche attimo.
Area Archeologica e Museo Nazionale dell’Antica Città di Cosa, Ansedonia
Coordinate: 42.4127668, 11.283423
Courtesy Galleria d’Arte Niccoli, Parma.
In collaborazione con la Direttrice dell’Area Archeologica Susanna Sarti e con la Direzione Regionale Musei della Toscana. Un ringraziamento a Travertino Pacifici e Monteverro Wines. Con il patrocinio del Comune di Orbetello e Rai Toscana.