Martin von Muralt, a capo della Rete integrata Svizzera per la sicurezza, racconta come il Paese intenda rinnovare il suo impegno nella prevenzione. Pubblichiamo l’intervista di Chiara Sulmoni per #ReaCT2023- 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa
Nel 2022 è giunto a scadenza il primo Piano d’azione nazionale svizzero per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento, adottato nel 2017 e della durata iniziale di cinque anni, che consisteva in ventisei misure specifiche suddivise in cinque diversi ambiti d’intervento. In sintesi, il Piano d’azione, rivolgendosi alle istituzioni pubbliche, accademiche e alla società civile, auspicava l’avvio di iniziative volte a contribuire allo sviluppo di conoscenze e competenze della materia; a favorire la collaborazione fra gli attori coinvolti in questa tematica; ad anticipare la diffusione delle ideologie e gruppi estremisti; a promuovere l’abbandono della violenza e la reintegrazione dei soggetti radicalizzati e, infine, ad incrementare la cooperazione internazionale. In corrispondenza di ogni attività ipotizzata o proposta – come ad esempio l’organizzazione di convegni, la promozione della ricerca, della formazione, del dialogo interreligioso, l’educazione alla cittadinanza, progetti di contro-narrativa, la creazione di strutture specializzate di sostegno psicosociale o per il reinserimento e via dicendo – il documento specificava quali dovessero essere i gruppi di destina tari, su chi sarebbero ricadute le responsabilità politiche e operative e a chi spettasse l’onere del finanziamento. Una ‘road map’ dal solido aspetto organizzativo.
Al termine di questa esperienza, la Confederazione ha deciso di continuare sulla strada intrapresa pubblicando un nuovo Piano d’azione per il periodo 2023-2027.
Per capire come è andata finora e come la Svizzera intenda rinnovare questo suo impegno nella prevenzione, abbiamo posto alcune domande a Martin von Muralt, a capo della Rete integrata Svizzera per la sicurezza (RSS), organo che segue l’elaborazione e la messa in opera delle misure contenute nei Piani d’azione nazionali.
Martin von Muralt è il delegato della Confederazione e dei Cantoni presso la Rete integrata Svizzera per la sicurezza. Ha studiato Scienze Politiche all’Università di Ginevra, ha frequentato corsi di formazione continua nei settori della direzione di progetto, della condotta, della gestione dei rischi e della cybersicurezza presso diverse università in Svizzera e all’estero ed è in possesso di un diploma federale di agente di Polizia. Ha lavorato alla Polizia giudiziaria di Ginevra come ispettore, è stato coordinatore dell’Interpol e inquirente presso fedpol, ha ricoperto il ruolo di capo di Stato Maggiore, di comandante della Polizia della regione di Morges e ha diretto il penitenziario di Champ-Dollon (Ginevra).
Alla fine del 2017 la Svizzera adotta il suo primo Piano d’azione nazionale per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento (PAN). Qual è il vostro bilancio?
A distanza di cinque anni, il bilancio complessivo è positivo, anche se sussistono delle lacune rispetto alle azioni da intraprendere, in merito alle quali nel 2021 un Rapporto di valutazione ha espresso delle raccomandazioni sulle quali potremo tornare più avanti.
Tuttavia, questo Piano ha permesso di smuovere le acque; le problematiche legate alla radicalizzazione e all’estremismo violento sono oggi all’ordine del giorno e c’è una maggiore consapevolezza sia a livello federale, che cantonale e comunale. In precedenza, credo che questo lavoro venisse essenzialmente considerato di competenza dei servizi di intelligence, della Polizia e della magistratura. Ora si comprende invece come quella della radicalizzazione e dell’estremismo violento sia una problematica ampia che non concerne unicamente gli attori della sicurezza in senso stretto, ma vada affrontata innanzitutto dal punto di vista della prevenzione, e questo coinvolge in primo luogo le scuole, le istituzioni sociali, gli operatori di quartiere, le ONG, le università.
Grazie a questo Piano, sono stati portati avanti numerosi progetti che combattono le cause della radicalizzazione: nei Cantoni e nei Comuni, sono nate strutture specializzate e di consulenza; sono stati aperti uffici e linee telefoniche a cui rivolgersi per esprimere le proprie preoccupazioni; dietro le quinte, è stato avviato un processo di monitoraggio dei dossier da una prospettiva pluridisciplinare, per garantire che i casi vengano seguiti in maniera adeguata. Poiché la Svizzera è un sistema federale, questi progressi non sono identici in tutti i Cantoni. Tuttavia, nei maggiori centri urbani e nei Cantoni più grandi, sono presenti strutture efficienti a cui potersi rivolgere. Oltre a ciò, il Piano d’azione era accompagnato da un Piano d’incentivazione finanziaria dotato di un budget di 5 milioni di franchi, da suddividere su cinque anni, per co-finanziare iniziative che rispondessero alle misure suggerite. Fra il 2019 e il 2022 abbiamo potuto co-finanziare più di quaranta progetti proposti da istituzioni pubbliche, cantonali o comunali, ma anche da università o associazioni della società civile.
Un ulteriore risultato positivo è che alla fine dei cinque anni, tutti hanno ritenuto che si dovesse continuare questo percorso, implementando un nuovo Piano d’azione con relativo finanziamento, che presenteremo entro l’inizio del 2023. Oggi, quindi, c’è unanimità sull’importanza del tema.
Cos’è esattamente il PAN e quali i suoi obiettivi?
Quella di avviare il PAN nel 2017 è stata una decisione comune di Confederazione, Cantoni e Città. Il PAN fa parte della strategia svizzera di lotta al terrorismo entrata in vigore nel 2015, di cui rappresenta l’elemento preventivo. Ha una durata di cinque anni e prevede(va) la creazione di un Ufficio nazionale di coordinamento collegato alla Rete integrata Svizzera per la sicurezza -che dirigo- e che è stato incaricato di metterlo in opera e di curare anche i progetti finanziati dal programma di incentivazione.
Questo PAN si componeva di ventisei misure suddivise in cinque tematiche concernenti tutte le forme di radicalizzazione e di estremismo violento. L’obiettivo era di creare condizioni quadro in linea con la pratica e orientate alla prevenzione della radicalizzazione che comporta un potenziale di estremismo. In Svizzera riteniamo infatti che la democrazia debba essere sufficientemente robusta per resistere alle idee radicali: ciò che dobbiamo prevenire ad ogni costo, è che queste idee siano accompagnate da atti violenti. Si tratta quindi di individuare e disinnescare per tempo il pericolo di un tale fenomeno, in maniera mirata. È stato chiaro fin da subito come, per arrivare a ciò, la cooperazione istituzionale e interdisciplinare fossero indispensabili; era necessario definire delle regole per lo scambio d’informazioni e di buone pratiche tra i diversi campi d’attività, fra scuole, servizi sociali, assicurazioni sociali, Polizia, servizi d’intelligence e giustizia, di istituzionalizzare lo scambio interdisciplinare e permettere il coinvolgimento della società civile nelle misure di prevenzione.
Quali settori o elementi bisogna rafforzare?
Dobbiamo assicurarci che le autorità comunali e cantonali mettano a disposizione le risorse necessarie e, nel caso in cui non ne abbiano di sufficienti -se manca personale- che cerchino di fare gruppo con altre regioni o diano mandati ad altri Cantoni o istituzioni; inoltre, dobbiamo creare le basi giuridiche in tutti i Cantoni per permettere lo scambio di informazioni. Fra le principali raccomandazioni emerse dal Rapporto di valutazione, risulta che dobbiamo evitare di concentrarci unicamente sull’estremismo islamista; veniamo incoraggiati ad interessarci in ugual misura all’estremismo di sinistra, di destra e monotematico -quello che contesta la legittimità dello Stato-; dobbiamo poi anche ridurre le disparità regionali che abbiamo in Svizzera, dovute da un lato alla scollatura fra città e campagna; dall’altro, agli approcci culturali diversi nelle varie aree linguistiche del paese -latine e tedesca-; inoltre, dobbiamo estendere e migliorare la cultura dello scambio e la messa in rete delle informazioni e delle buone pratiche. In questo senso, l’Ufficio nazionale di coordinamento ricoprirà un ruolo essenziale nell’ambito del nuovo PAN.
C’è anche un altro grande lavoro da fare. In Svizzera, in materia di radicalizzazione, abbiamo identificato sei tappe fondamentali: la prima consiste nella prevenzione; la seconda è l’individuazione precoce dei comportamenti; la terza è rappresentata dalle procedure d’inchiesta; al quarto posto c’è la condanna, cui segue l’esecuzione della pena, e infine la tappa molto importante del disimpegno e del reinserimento sociale. Ognuna di queste tappe è responsabilità di attori diversi. La prevenzione è un lavoro multidisciplinare, così come l’individuazione dei comportamenti, che può riguardare le scuole, i servizi sociali, così come i club sportivi e numerose altre istituzioni, la Polizia, la giustizia; ma ci sono anche diversi livelli di responsabilità. Nel caso di una condanna del Tribunale Penale Federale per terrorismo o appartenenza a un’organizzazione criminale, ad esempio, la pena si sconta in un penitenziario cantonale e anche la reintegrazione e le relative misure d’accompagnamento saranno di responsabilità cantonale, forse anche comunale e in collaborazione con la società civile.
Di conseguenza, per ognuna di queste sei tappe, si tratta di stabilire ‘chi fa cosa’ e quando. E visto che ogni Cantone si organizza autonomamente, dobbiamo proporre misure generiche che possano essere riprese da tutte le istituzioni del paese e in cui tutti e ventisei i Cantoni si riconoscano, affinché le diverse tappe e responsabilità si possano concatenare al fine di garantire un seguito ottimale.
Come valuta una criticità rilevata dal Rapporto di valutazione esterno, che sottolinea come “non è ancora riconoscibile una cultura improntata allo scambio di informazioni tra le istituzioni e all’implementazione di buone pratiche”?
È vero che ci sono molti progetti realizzati nel contesto del PAN i cui risultati e insegnamenti, purtroppo, sono stati scarsamente diffusi; non si è avuto uno scambio sufficiente al riguardo. È quindi necessario migliorare la comunicazione. Il flusso di informazioni fra strutture specializzate è ridotto, ma credo che ciò sia dovuto alla novità di questa iniziativa. Finora, le istituzioni si sono concentrate sulla propria organizzazione interna e per determinare le varie responsabilità. Bisogna quindi consolidare queste strutture, che sono recenti, e fare in modo che comunichino fra loro.
Fra le misure possibili per rafforzare gli scambi, c’è l’organizzazione di incontri regolari insieme a tutti gli attori coinvolti, quelli a cui si fa appello in quanto hanno conoscenze specifiche in materia di religiosità, di ideologia, di sostegno sociale e via dicendo.
L’Ufficio nazionale di coordinamento della Rete integrata Svizzera per la sicurezza non ha ancora potuto assumere pienamente il suo ruolo a causa di risorse al momento limitate, ma speriamo in futuro di assolvere il compito in maniera sempre più importante, soprattutto per ciò che riguarda la messa in rete delle strutture.
Nel corso degli ultimi tre anni, la pandemia in particolare ha esacerbato le tensioni sociali aumentando il rischio di radicalizzazione e adesione potenziale all’estremismo violento. Quale ruolo gioca la società civile nella prevenzione e nel PAN?
Sono convinto che coinvolgere la società civile, insieme ad altri partner, sia molto importante. Ma cosa intendiamo per società civile? Ritengo che in questo contesto esacerbato, si debba per esempio anche pensare al ruolo dei media, della comunicazione, a come vengono trasmessi i messaggi affinché siano ben compresi. Per come la vedo io, la società civile in Svizzera sono anche tutti gli organi legislativi e politici, a livello comunale, cantonale e federale; abbiamo un sistema di milizia1 e i cittadini impegnati in vari ambiti della vita pubblica ricoprono un ruolo molto importante nel quadro di questi cambiamenti sociali.
Per ciò che concerne le tensioni, ritengo che i nostri Stati (europei, ma non solo) si trovino davanti a tre grandi sfide: quella legata ai cambiamenti climatici, che implicherà l’adozione di provvedimenti atti a ridurre i consumi e a regolamentare il nostro rapporto con l’energia; quella legata alla crescita dei flussi migratori – che con il riscaldamento globale, la siccità e la popolazione africana che triplicherà nei prossimi decenni, sarà particolarmente importante- e infine, già ora le società sviluppate e occidentali si confrontano con la problematica delle catene di approvvigionamento nel settore alimentare, sanitario e tutto ciò che riguarda le tecnologie digitali. Queste sfide spingeranno i nostri Stati a ritornare a politiche nazionali e regionali. Quando si fa riferimento all’approvvigionamento energetico o alimentare, si parla ormai ovunque di autonomia nazionale. I governi saranno costretti a varare misure più restrittive e incisive e questo evidentemente è un terreno fertile per i movimenti contestatari e cospirazionisti; abbiamo visto cosa è accaduto nel caso della pandemia.
Un altro rischio potenziale è che all’interno della società, alla luce di queste politiche, le idee nazionaliste e anticapitaliste vengano banalizzate e legittimate, tanto dalla destra quanto dalla sinistra, e che questo possa portare a contestare la legittimità del nostro stato di diritto. Ci si è resi conto che già ora molte persone non sono in grado di riconoscere messaggi dalla portata nazionalista, xenofoba o fascista, e questa è una grande sfida per la prevenzione. La società civile deve svolgere un ruolo fondamentale nell’aiutare i giovani e meno giovani, a identificare i discorsi radicali che potrebbero condurre verso l’estremismo.
Quali sono altre sfide per la prevenzione?
È importante sviluppare il pensiero critico nelle scuole, in quanto i nostri giovani si confrontano sempre più con notizie che provengono da ogni direzione e devono saper distinguere quelle vere da quelle false. Ciò sarà ancora più difficile in futuro, con i deep fake e lo sviluppo delle tecnologie ad essi collegate. C’è poi l’aumento della radicalizzazione attraverso le reti sociali, dei semplici vettori di comunicazione che quando vengono però utilizzate ai fini della propaganda diventano strumenti molto potenti in grado di avvolgere le persone in una bolla informativa, e diffondendo messaggi semplicistici, favoriscono la polarizzazione delle nostre società. E polarizzazione vuol dire mancanza di comunicazione e potenziale radicalizzazione, almeno a livello del pensiero.
Il primo Piano d’azione è giunto a conclusione. Sulla base dell’esperienza di questi cinque anni, e di fronte agli scenari menzionati, come si intende procedere, quali solo le priorità per la prossima fase?
Le autorità federali, cantonali e comunali hanno deciso all’unanimità di creare un nuovo Piano d’azione nazionale contro la radicalizzazione e l’estremismo violento, prendendo in considerazione le proposte di miglioramento contenute nella nostra ultima valutazione. La struttura del prossimo Piano consiste in tre principi generali da applicare trasversalmente a tutte le misure, e in undici misure suddivise in quattro categorie.
Il primo principio, stabilisce che le misure proposte devono tutte realizzarsi in uno spirito di cooperazione e coordinamento interdisciplinare e inter-istituzionale; in secondo luogo, dobbiamo fare in modo di promuovere il pensiero critico e sviluppare le competenze mediatiche sia nei giovani che negli adulti; infine, il terzo principio prevede che tutte le misure vengano attuate con la sensibilità necessaria nei confronti delle questioni di genere e d’integrazione e un approccio inclusivo che tenga conto dell’essere umano nella sua globalità. Sono aspetti che devono essere presi in considerazione, dal momento che le misure di prevenzione non si attuano nello stesso modo in un contesto di estrema destra o sinistra, LGBT o tradizionale, nel caso degli uomini e delle donne, ma in funzione del genere e degli orientamenti.
Il primo dei quattro ambiti di intervento che abbiamo definito, consiste nel mettere a punto misure per l’identificazione e la riduzione delle cause della radicalizzazione; il secondo, nella sensibilizzazione e nel miglioramento delle conoscenze, attraverso progetti di ricerca che andranno sviluppati insieme a università e istituti accademici così da comprendere la realtà e l’evoluzione del fenomeno; il terzo, è la messa in rete – anche delle strutture specializzate- e la gestione delle informazioni; infine, dobbiamo sviluppare gli interventi su persone a rischio o radicalizzate. E in questo caso, siamo già nell’ambito del disimpegno.
La Svizzera può rappresentare un punto di riferimento in Europa, per il lavoro che svolge nell’ambito della prevenzione?
C’è stata una presa di coscienza politica, circa la necessità di affrontare la questione da un punto di vista interdisciplinare e a ogni livello statale. Se qualche paese non avesse ancora compiuto questo passo, potrebbe prendere ispirazione dal fatto che noi coinvolgiamo tutti gli attori della prevenzione attorno a questa tematica -quindi le scuole, i servizi e le assicurazioni sociali, le attività sportive, l’università, la Polizia, la giustizia, l’intelligence. Gli stessi Piani d’azione nazionali sono stati elaborati in collaborazione con dei gruppi di accompagnamento strategico, composti da tutti questi attori. Inoltre, incoraggiamo ad affrontare sul terreno le varie problematiche che si presentano, per mezzo di tavole rotonde pluridisciplinari. In questo, ogni Cantone si organizza autonomamente. Numerosi paesi hanno già adottato un approccio pluridisciplinare e anche noi puntiamo molto su questo aspetto, cosa che potrebbe essere di stimolo per altri.
(#ReaCT2023- 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa è disponibile a questo link)