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Non rallentare il Green deal europeo. Stavolta sono le aziende a schierarsi

È stata respinta la mozione del Ppe che puntava a rigettare la “Nature Restoration Law”, proposta di regolamento per il ripristino della natura, parte dell’ambizioso programma ambientalista che si è data l’Unione europea. Arvea Marieni, direttrice tecnica della Regenerative Society Foundation, spiega perché molte aziende si sono rese conto che il cambiamento climatico è semplicemente un cattivo affare

Oggi la Commissione Ambiente del Parlamento europeo ha respinto una mozione di rigetto – sostenuta dal Partito Popolare Europeo – della proposta di regolamento per il ripristino della natura (Nature Restoration Law).

La proposta di legge era stata presentata nel giugno dell’anno scorso, ed è parte integrante del piano europeo per la conversione del sistema industriale, finanziario ed economico verso un modello sostenibile, il Green Deal.

Il complesso pacchetto legislativo del Green Deal rappresenta l’attuazione di impegni che l’Unione Europea e tutti gli stati membri hanno assunto con accordi internazionali.

Un percorso già reso legalmente vincolante dal Regolamento 2021/1119, Legge Europea sul Clima, che definisce l’obbligo per la Ue di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e l’obiettivo intermedio di riduzione di emissioni al 2030 del 55% (rispetto ai livelli del 1990). La Legge Europea per il Clima è stata votata e approvata dagli Stati Membri riuniti in Consiglio.

Questo significa che nessun governo contesta la necessità, lo scopo, le modalità e l’urgenza di questi impegni, che devono essere realizzati prontamente per garantire la sicurezza dei sistemi sociali, economici e industriali delle nostre popolazioni. La realtà, al di là delle grida scomposte delle molte lobby e di certi rappresentanti politici, è questa.

E allora come è potuto accadere che la legge sul ripristino della natura sia diventata un terreno di scontro tra le forze politiche? La risposta è nella manovra dei partiti che cercano di riposizionarsi in vista delle prossime elezioni europee, nel tentativo di separare i popolari dai socialdemocratici in vista di nuove alleanze.

Ma stavolta è successo un fatto nuovo. Di fronte all’aggravarsi della crisi climatica e ambientale che causa danni crescenti e sempre più costosi, per contrastare la disinformazione imperante, le associazioni ambientaliste hanno cercato e trovato un’alleanza inedita con parti significative dell’industria europea. In pochi giorni gruppi come Business for Nature hanno dato vita ad una campagna mirata di comunicazione, informazione e lobby sui membri del parlamento e i rappresentanti politici europei.

Se non è la prima volta che singole aziende hanno preso posizioni “verdi”, stavolta conta la taglia. Oltre 1400 imprese con oltre 5 mila miliardi di fatturato si sono schierate a difesa della legge. Tra queste, anche un pezzo dell’industria italiana: le 17 aziende della Regenerative Society Foundation, che hanno un giro di affari di quasi 5 miliardi. La fondazione partecipa alle attività della piattaforma Business and Biodiversity promossa dalla Commissione europea.

Molte sono marchi importanti del nostro agrifood. Dietro di loro il valore delle filiere dell’eccellenza italiana, compresi i nostri piccoli agricoltori.

Imprese che agiscono su territori già minacciati dal cambiamento climatico e dalle crisi ecologiche, dalla perdita di biodiversità, dall’impoverimento dei suoli, dalla siccità, dall’inquinamento.

Aziende che ieri hanno preso posizione con una lettera inviata ai rappresentanti della politica europea, firmata dal co-presidente della Fondazione Andrea Illy.

Al di là della posizione della Fondazione, desidero sviluppare alcune valutazioni personali sul perché queste aziende, come le altre 1400 in Europa, si stiano muovendo.

L’allarmante deterioramento dell’ambiente, degli ecosistemi e del capitale naturale ha già un impatto sulle attività d’impresa e sui risultati finanziari. La natura e la disponibilità di risorse e funzioni ecosistemiche (acqua, aria, suolo) definiscono i confini delle attività economiche. Ignorare questo fatto è la causa della crisi odierna. Il nostro sistema economico non riconosce il valore delle risorse essenziali da cui tutto dipende. Né integra i veri costi e le esternalità delle operazioni commerciali. Questo segna i limiti dei modelli economici classici.

Si tratta di un fallimento fondamentale del mercato. Senza la natura, semplicemente, non c’è business possibile. Da una prospettiva imprenditoriale, il cambiamento climatico è semplicemente un cattivo affare. E la conseguenza di una cattiva gestione aziendale. Si consuma il capitale naturale senza reintegrarlo. I conti sono in rosso. Quale impresa potrebbe rimanere a galla in queste condizioni? Con l’accelerazione allarmante delle crisi ecologiche, è a rischio l’esistenza stessa di uno spazio operativo sicuro per le nostre imprese e le nostre società.

D’altra parte, mantenere in equilibrio gli ecosistemi da cui dipendiamo non è una questione politica. Tanto meno deve divenire preda delle manovre dei partiti. La cura dell’ambiente, inteso come luogo di origine, casa, patria, quella della famiglia e della tradizione sono principi fondanti della destra, richiamati anche da Giorgia Meloni in alcuni suoi discorsi. Ma sono anche aspirazioni, principi e valori dei progressisti. E sono alla base del buon vivere, del benessere collettivo e di un’economia sana.

Le pratiche rigenerative, come la transizione energetica, rafforzano la libertà, la resilienza e l’autonomia degli agricoltori e dei produttori, nonché la sicurezza dei nostri sistemi alimentari. Le innegabili disparità economiche e la compressione dei diritti dei piccoli agricoltori in Europa e altrove, così come la minaccia sociale rappresentata dall’erosione dei redditi agricoli, sono la conseguenza di un’errata progettazione del mercato, e del modo in cui sono distribuiti i margini.

Ancora una volta, come nel caso del mercato elettrico, si tratta di una questione da risolvere con adeguate politiche dei prezzi, con nuove regole fiscali e un diverso funzionamento dei mercati. Oggi, questi sono disegnati per favorire alcuni fattori di produzione e categorie economico-produttive a discapito di altre. Il cambiamento del regime industriale e dei flussi di commercio richiede l’adattamento di queste regole. Da questo dipende il successo della transizione ecologica.

Alla politica spetta sottolineare i vantaggi di questa trasformazione, che il mercato sta cominciando a comprendere. La transizione ecologica rappresenta un grande potenziale per l’affermazione di meccanismi economici più equi. Leader politici responsabili potrebbero cogliere l’opportunità offerta da questa trasformazione epocale per occupare una nicchia del mercato elettorale che oggi non è coperta da un’offerta credibile. A questa leadership responsabile e innovativa spetta il compito di progettare un sistema operativo che funzioni per il futuro.

La sfida ambientale globale del cambiamento climatico e degli ecosistemi richiede politiche volte sia a ridurre l’intensità di carbonio dell’economia sia a potenziare i pozzi naturali di carbonio. Pertanto, la triplice crisi della natura, del clima e della biodiversità deve essere affrontata insieme. La scienza è chiara: ignorarne una porterà all’incapacità di affrontare le altre.

Se mai c’è stato un tempo per prendere posizione, questo è ora. Se le scadenze elettorali a breve termine e gli egoismi dei partito prevarranno sulla responsabilità politica, il mondo avrà poche possibilità di successo. Di fronte alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico e del disordine degli ecosistemi planetari non è il tempo dei compromessi, dei rinvii, delle mezze verità. È il tempo delle scelte. «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”. Tutto il resto è colpevole ignavia. Fortunatamente, le imprese responsabili stanno prendendo una posizione chiara.


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