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Tra Europa e Cina la tensione è ai massimi da 10 anni

Di Duccio Fioretti

La proposta di istituire nuovi dazi verso alcune aziende cinesi sembra aprire un nuovo periodo di scontro tra Pechino e Bruxelles. Con dinamiche simili a quelle di dieci anni fa. Ma se allora il discorso era esclusivamente di tipo economico, stavolta qualcosa è cambiato

I rapporti commerciali tra Unione Europea e Repubblica Popolare Cinese rappresentano una storia d’amore e d’odio. D’odio, perché entrambi cercano costantemente di limitare l’influenza economica (e quindi politica) che l’uno esercita sull’altro. D’amore, perché gli scambi tra le due aree continuano ad essere elevatissimi: la Cina che si conferma infatti come primo partner commerciale dell’Unione, con un valore di beni che supera gli 850 miliardi di euro nel 2022, riuscendo a superare persino gli Stati Uniti. Il flirt tra Pechino e Bruxelles è dunque caratterizzato da alternati momenti di distensione e situazioni di scontro. In questo specifico periodo storico, sembra che per inquadrare nel giusto framework la relazione UE-Cina ci si debba riferire al secondo caso.

Le tensioni sono state riaccese dalla proposta di istituire delle barriere doganali nei confronti delle auto elettriche, e in parte anche del materiale medico esportato da Pechino. Settori in cui il mercato cinese si sta espandendo a ritmi velocissimi. Una proposta che è oggetto di dibattito tra le due fazioni interne all’Unione, quella dei falchi e quella delle colombe.

Capofila dei falchi è la Francia, sia per i suoi interessi nel settore specifico (il territorio francese ospita al suo interno una grandissima quota della capacità produttiva europea di auto elettriche) che per il suo storico approccio di diffidenza nei confronti di Pechino. Mentre Berlino guida la corrente delle colombe, interessate a tutelare le esportazioni dirette verso la Repubblica Popolare (la sola Germania esporta beni per un valore totale di quasi 9 miliardi di euro) e intimorite dalle possibili conseguenze di una retaliation di carattere economico.

Una situazione simile a quella che si era verificata esattamente 10 anni fa. Le fazioni di allora erano le stesse, con Francia e Germania a guidare le rispettive correnti, ma diverso era l’oggetto del dibattito: in quel caso, l’attenzione dell’Unione era stata richiamata dalle performance cinesi nei settori delle telecomunicazioni (con Huawei e Zte in prima fila) e dei pannelli solari. Nel 2013 a trionfare fu la linea del compromesso, ma stavolta la situazione sembra differente.

La posizione francese è ancora più agguerrita. Lo dimostrano i fatti: nel maggio scorso il presidente Emmanuel Macron ha annunciato un nuovo piano per il rilancio dell’industria nazionale delle auto elettriche, incentrato sull’emissione di sussidi agli acquirenti di prodotti made in France e sul raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione delle batterie montate su questo tipo di veicoli. Nel pieno segno dell’autonomia strategica, in barba a Washington e, ovviamente, a Pechino. Non a caso è lo stesso inquilino dell’Eliseo a lanciare un monito: “Non dobbiamo ripetere nel mercato delle auto elettriche gli errori commessi con il fotovoltaico, dove abbiamo creato una dipendenza dall’industria cinese e fatto prosperare i suoi produttori.”

Mentre negli uffici di Bruxelles si preparano le bozze per l’istituzione dei nuovi dazi, l’establishment politico dell’Europa e dei suoi stati membri riflette sulle ricadute politiche di questa mossa e sulla nuova posizione politica dell’Unione sul piano internazionale, soprattutto nei confronti di Pechino. Dopo la fase di crisi del 2013, la coppia Euro-Asiatica ha vissuto un momento di coesione culminato con la firma dell’Accordo sugli Investimenti nel 2020, dopo sette anni di negoziati. Questo accordo doveva avere una rilevanza soprattutto economica per l’Unione Europea, poiché facilita (almeno sulla carta) l’accesso di alcune imprese europee al mercato cinese, comprese quelle delle auto elettriche e delle telecomunicazioni (anche se sembra irrealistico che i cinesi si mettano a comprare prodotti europei in settori in cui dominano incontrastati); di natura geopolitica sono invece i vantaggi per Pechino, che tramite una serie di iniziative diplomatiche coordinate mirava a legare a doppio filo le economie occidentali alla sua capacità produttiva.

Ma la pandemia da Covid, lo scoppio della Crisi in Ucraina e l’arrivo di Joe Biden (noto atlantista) alla Casa Bianca, assieme alle crescenti performance economiche cinesi degli ultimi anni, hanno portato l’Europa a rivalutare l’approccio accondiscendente verso il Dragone. Un buon amico (o meglio, un buon cliente) nel breve periodo, che però potrebbe trasformarsi presto in un acerrimo rivale. La nuova ‘Europa Geopolitica’ menzionata da Ursula Von Der Leyen nel suo discorso di insediamento non può permettersi di ignorare questa realtà. Considerare solamente gli aspetti economico-finanziari dei rapporti tra Bruxelles e Pechino potrebbe essere un errore che l’Europa pagherebbe a caro prezzo nei decenni a venire.

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