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La riforma del Codice dei contratti pubblici sta per entrare in vigore. Funzionerà?

Di Marco Giustiniani

La domanda che molti si sono posti in questi mesi di vigenza inefficace del nuovo codice è se fosse davvero necessaria una nuova e imponente riforma del sistema della contrattualistica pubblica. Risponde Marco Giustiniani, partner dello studio legale Pavia e Ansaldo, consigliere giuridico presso il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, consigliere giuridico del Commissario per la ricostruzione post sisma 2016

Tra poco più di una settimana, alla mezzanotte del prossimo 1 luglio 2023, diventerà definitivamente efficace il decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36, recante il nuovo codice dei contratti pubblici: il terzo in meno di vent’anni. La domanda che molti si pongono o si sono comunque posti in questi mesi di vigenza inefficace del nuovo codice è se fosse davvero necessaria una nuova e imponente riforma del sistema della contrattualistica pubblica.

In quest’ottica, è oramai acquisito a fattor comune che uno dei maggiori problemi della rallentata crescita del nostro Paese negli ultimi trent’anni sia rappresentato dal deficit infrastrutturale e dai tempi troppo dilatati per la realizzazione di opere pubbliche cardinali. Tale stato patologico (che oggi sta attraversando una delle sue fasi acute) è tuttavia il frutto di una cronicizzazione ascrivibile a due principali fattori, tra loro in parte connessi: l’incertezza, magmaticità e comunque la pesantezza dell’architettura legislativa sugli appalti pubblici, con la conseguente ‘paura della firma’ dei funzionari amministrativi; e l’eccessiva burocratizzazione del sistema.

Nei suoi sette anni di vita, il codice 50/2016 ha purtroppo dimostrato di non essere pienamente in grado di fornire le risposte alle domande che il mercato poneva per curare la patologia immanente al Sistema Italia. I sintomi ne sono stati i molteplici interventi subiti dal vecchio codice, a partire dal post lock-down, con i cc.dd. Decreti Semplificazioni che – per agevolare il rimbalzo economico – hanno sospeso, rinviato e infine derogato buona parte delle disposizioni chiave su cui il testo codicistico era fondato.

Se così è, allora la risposta alla domanda non può che essere positiva: una riforma di ampio respiro era necessaria per evitare di postergare una legislazione emergenziale derogatoria di quell’ordinaria con conseguenti difficoltà anche solo nel ricostruire il quadro normativo applicabile.

Ferma questa prima conclusione, occorre provare a rispondere a una seconda, egualmente importante, domanda: il nuovo codice può essere in grado di riuscire, lì dove il vecchio ha fallito, nella cura delle cause del descritto stato patologico nazionale?

Tornando indietro nel secolo scorso, Albert Einstein aveva dettato tre semplici regole per verificare se un lavoro fosse stato fatto bene, le c.d. regole di lavoro:

Esci dalla confusione, trova semplicità;
Dalla discordia, trova armonia;
Nel pieno delle difficoltà risiede l’occasione favorevole.

A una prima lettura del neonato decreto 36/2023 appare che tali regole siano state rispettate dal legislatore nel progettare e mettere a terra la più imponente riforma del diritto dei contratti pubblici dal 2006 a oggi. Ma muoviamo con ordine e verifichiamo se il nuovo codice abbia le carte in regola per superare l’incertezza, la magmaticità, la pesantezza dell’attuale legislazione degli appalti; e, quantomeno, per avviare un processo di sburocratizzazione del sistema.

Prima regola di lavoro: esci dalla confusione, trova semplicità. Per spiegare il fattore incertezza può essere utile mutuare le azzeccate sintesi fornite qualche anno fa da due noti Consiglieri di Stato: in Europa si interviene legislativamente sugli appalti pubblici una volta ogni dieci anni, in Italia dieci volte in un anno; i continui interventi del legislatore nel settore dei contratti pubblici hanno generato una vera e propria ‘balcanizzazione’ delle fonti in materia con la conseguente difficoltà anche solo del reperimento della disposizione vigente per la disciplina del caso concreto.

È ben vero che quello della contrattualistica pubblica sia un settore oggettivamente complesso per i molteplici interessi ed esigenze che abbraccia. Tuttavia, ciò non significa che il legislatore lo debba utilizzare come banco di prova in un tentativo costante di trovare la c.d. “norma perfetta” – mediante ripetuti interventi correttivi – per la regolazione di tali interessi ed esigenze.

In effetti, sono proprio i continui emendamenti e le ripetute modifiche della regolazione settoriale (il più delle volte di natura chirurgica e privi di una visione di insieme) a genere quella incertezza applicativa negli operatori privati, ma soprattutto nelle amministrazioni, a cui è conseguito lo stallo del sistema. E ciò anche nella semplice individuazione delle norme applicabili alla singola gara.

A ciò si aggiunga che – in epoca ancora non sospetta (ossia prima che la crisi pandemica facesse entrare l’Italia in una nuova fase acuta della descritta patologia) – l’allora Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, aveva già avuto modo di ‘bacchettare’ il legislatore che continuava a sovralegiferare la materia dei contratti pubblici senza una visione prospettica di insieme. In occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2018, egli aveva infatti sostenuto che “la politica non riesce a compiere in modo autorevole e significativo quel bilanciamento dei valori che costituisce la missione sua propria. Il problema si trasferisce, allora, dalla politica al diritto e alla legge, e la crisi della politica diviene crisi del diritto e della legge. Questa, infatti, che dovrebbe costituire l’atto di indirizzo politico per eccellenza, diventa sempre più incerta e sempre meno capace di regolare. Il proliferare di leggi che spesso intervengono sulla stessa materia provoca una diminuzione della loro chiarezza e della loro capacità precettiva e regolatoria”.

Il corollario dell’instabilità di una disciplina in costante evoluzione (o involuzione) è stato rendere il procedimento di aggiudicazione (e successiva esecuzione) di una commessa pubblica una sorta di percorso a ostacoli, con conseguente incremento del timore di assunzioni di responsabilità da parte dei RUP (c.d. paura della firma); e rischio di formazione di sacche di inefficienza amministrativa, terreno – questo, sì – fertile per la proliferazione di comportamenti illegali.

Di qui la prima regola di lavoro che appare essere stata rispettata dal legislatore: uscire dalla confusione e trovare la semplicità di un linguaggio legislativo più fluido con un ritorno a una impostazione civil-codicistica dello scheletro di nuovo codice e a disposizioni più sintetiche, più chiare e – proprio per questo (si spera) – più stabili.

Seconda regola di lavoro: Dalla discordia, trova armonia. Per quanto concerne il secondo fattore cronicizzante (la burocratizzazione del sistema), questo è – in parte – la risultanza di una normativa stratificata (balcanizzata, appunto) come quella appena descritta; e – in parte – frutto di un problema che non riguarda il solo sistema degli appalti pubblici, ma il Sistema Italia nella sua interezza.

In altri termini, l’eccessiva lunghezza della filiera burocratica che congiunge la formulazione dell’idea di (ossia l’individuazione dell’interesse pubblico a) realizzare una determinata opera o infrastruttura, la sua progettazione, la relativa approvazione, l’individuazione del soggetto realizzatore e la sua finale inaugurazione, è – per un verso – dovuta a una normativa che prevede troppe sovrastrutture amministrative; ma – per un altro verso – all’esistenza stessa nell’apparato amministrativo italiano di troppe sovrastrutture che, appunto, non operano in armonia l’una con l’altra.

Di qui la seconda regola di lavoro: trovare l’armonia dalla discordia.

Il legislatore ha tentato di farlo pensando e realizzando uno strumento in certo modo autonomo, auto-esecutivo e auto-sufficiente, un congegno quasi capace di lavorare da solo, grazie anche al valore interpretativo e operativo dei principi generali. Un codice che non necessita di rinvii esterni, vista l’inclusione nei suoi allegati delle disposizioni esecutive. Un codice che ha fatto ampio uso del meccanismo della delegificazione a regime; distinguendo così tra norme primarie e norme secondarie, ma facendo accedere le seconde alla modalità iniziale di approvazione delle prime per evitare che l’apparato amministrativo ne rallentasse l’adozione e, di conseguenza, l’esecuzione. Un codice che – al contempo – ha cercato di de-sovrastrutturare quell’apparato amministrativo prevedendo tempi e modalità più rapidi per la programmazione degli interventi pubblici, la loro progettazione e la loro definitiva aggiudicazione e realizzazione.

Terza regola di lavoro: Nel pieno delle difficoltà risiede l’occasione favorevole. Infine, la terza e ultima regola. L’occasione che ha provato a sfruttare il legislatore è quella di trasformare l’emergenza in opportunità, e le conseguenze della catastrofe pandemica, del conflitto Russo-Ucraino e della crisi economica ed energetica che ne sono conseguite in un elettroshock per il settore degli appalti pubblici, sia sotto il profilo legislativo, sia sotto quello operativo in senso stretto. Il tutto sotto la spinta degli investimenti discendenti dall’elevato numero di risorse pubbliche messe a disposizione dell’Italia con il PNRR.

Il nuovo codice ha, così, previsto l’impianto di una sorta di by-pass che potrebbe realmente accorciare l’iter burocratico per la realizzazione delle maggiori infrastrutture a partire dalla loro programmazione (stadio in cui in passato già si erano arenati molti progetti di grandi opere); ha posto a regime la sostanziale reductio ad unum dei procedimenti autorizzativi; ha compresso la fase di progettazione in due soli livelli; ha ‘riabilitato’ l’appalto integrato; ha ‘ristrutturato’ la figura del RUP, facendo riemergere quella dei responsabili di fase, prendendo coscienza che chi ha competenze per la fase (più prettamente giuridico-economica) di affidamento di un contratto pubblico potrebbe non averne per controllare la sua esecuzione dal punto di vista tecnico; ha chiarito i profili più dubbi dei requisiti di partecipazione; ha operato una convinta applicazione del divieto di gold plating aumentando i margini di manovra delle P.A. nel sottosoglia; ha garantito una maggiore discrezionalità alle stazioni appaltanti nella scelta dei criteri e degli elementi di valutazione e nella loro ponderazione; ha destrutturato le impalcature imposte per anni nella costituzione dei raggruppamenti temporanei d’imprese; ha ampliato l’uso del subappalto sulla traccia del (invero imposta dal) diritto europeo; ha fatto lunghi passi in avanti nella presa di coscienza che il ciclo di vita di un contratto pubblico non può prescindere dai profili afferenti alla revisione prezzi.

Volendo sintetizzare, il nuovo codice ha spostato il focus dell’intero sistema appalti inquadrando nell’obiettivo il “risultato” (i.e. la realizzazione della commessa, art. 1 del decreto 36/2023) e trasponendo invece la concorrenza da fine della disciplina dei contratti pubblici a semplice strumento (tra gli strumenti) per il raggiungimento del risultato (art. 3).

Se, dunque, le tre regole di lavoro paiono essere state rispettate, non resta che (esattamente come previsto dall’art. 2 del decreto 36/2023) stipulare un patto di fiducia tra legislatore e amministrazioni, allo scopo di consentire alle nuove norme di trovare applicazione.

Lato legislatore, tale patto dovrebbe necessariamente contenere un impegno a intervenire nel settore il meno possibile, interrompendo la ricerca della “norma perfetta”, garantendo invece la stabilità nel tempo del nuovo apparato normativo. In effetti, una norma può anche non essere in sé una “buona norma”, ma qualora sia in grado di divenire una “norma stabile” potrebbe comunque riuscire a sedimentare quelle prassi fisiologiche standard che tanto danno sicurezza o meglio ancora serenità alle P.A. e agli operatori del settore: un circolo applicativo virtuoso che solo un quadro positivo stabile e saldo nel tempo può garantire.

Di converso – come recentemente affermato da Luigi Carbone (Coordinatore della Commissione Speciale del Consiglio di Stato che ha formulato il progetto di nuovo codice) – le P.A. dovranno impegnarsi verso tre direttrici per evitare che la messa a terra della riforma subisca rallentamenti, se non addirittura vada in stallo: la qualificazione delle stazioni appaltanti; la progressiva digitalizzazione delle procedure e dell’intero ciclo di vita dei contratti pubblici; e, soprattutto, la formazione continua del personale pubblico.

A valle del 1 luglio, dunque, il giudizio finale sulla bontà della riforma – al contrario di quanto classicamente affermato da Alessandro Manzoni – non potrà attendere le prossime generazioni. I risultati dovranno essere raggiunti e valutati molto prima nel preminente interesse proprio di tali generazioni.

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