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La storia di Hanssen, la talpa dell’Fbi morta ieri in carcere

L’uomo, deceduto per cause naturali, aveva 79 anni: oltre 20 trascorsi a passare informazioni a Mosca, 22 dietro le sbarre. Il suo è stato definito “il peggior disastro dell’intelligence nella storia” degli Stati Uniti

Robert Hanssen, secondo il dipartimento di Giustizia statunitense l’uomo che ha causato quello che è “probabilmente il peggior disastro dell’intelligence nella storia” del Paese, è morto lunedì in carcere a Florence, in Colorado. È deceduto alle 6:55 locali. Secondo una fonte citata da Associated Press, per cause naturali.

L’ex Fbi aveva 79 anni, gli ultimi 22 dei quali trascorsi dietro le sbarre dopo la condanna all’ergastolo per spionaggio: da funzionario del Bureau all’interno dell’unità di controspionaggio sovietico, aveva venduto segreti per oltre due decenni, all’Unione Sovietica prima e alla Russia dopo, in cambio di oltre 1,4 milioni di dollari in contanti, depositi bancari, diamanti e orologi Rolex. Lui, la moglie e i sei figli non vivevano, però, nello sfarzo. Avevano una modesta abitazione di periferia in Virginia. Hanssen non aveva tradito gli Stati Uniti per denaro, bensì per ideologia. In una lettera ai suoi “superiori” sovietici del 1985 spiegava che una grossa ricompensa avrebbe rischiato di esporlo facendo scattare l’allarme.

Si era offerto a Mosca nel 1979, tre anni dopo essere entrato nell’Fbi. Grazie alle sue informazioni, confermate da un’altra talpa, l’ex Cia Aldrich Ames, l’intelligence sovietica ha arrestato e condannato a morte Dmitri Polyakov, maggiore generale del Gru (l’intelligence militare sovietica) e informatore degli Stati Uniti. In una lettera del 1985 al Kgb l’informatore americano aveva fatto altri tre nomi: quelli di Boris Yuzhin, Valery Martynov e Sergei Motorin. Lui non lo poteva sapere, ma anche Ames li aveva segnalati a Mosca come traditori. Martynov e Motorin sarebbe stato stati giustiziati con un colpo di pistola alla nuca. Yuzhin, invece, imprigionato per sei anni prima di essere rilasciato per via di un’amnistia generale per i prigionieri politici e successivamente emigrò negli Stati Uniti.

Nel 1989 Hanssen aveva compromesso le indagini interne dell’Fbi su Felix Bloch, un diplomatico sospettato di spionaggio. La talpa aveva avvertito il Kgb e questo aveva interrotto bruscamente i contatti con l’uomo impedendo all’Fbi di produrre prove a supporto. Bloch non fu mai accusato ma il dipartimento di Stato in seguito avrebbe posto fine al suo contratto negandogli la pensione.

Ma quell’episodio aveva alimentato i sospetti all’interno dell’Fbi, che poi avrebbero portato all’arresto di Hanssen nel 2001. Nel periodo intercorso, però, l’uomo aveva continuato la sua opera passando ai sovietici informazioni preziose su radar, satelliti e segnali. Basti pensare che aveva raccontato a Mosca (per 55.000 dollari) che sotto la nuova ambasciata costruita a Washington nel 1977 l’Fbi aveva scavato un tunnel vicino alla sala di decodifica pensando di usarlo per intercettazioni (ma non lo fece mai per paura di essere scoperto). Nel 1990 era stato segnalato perfino dal cognato, Mark Wauck, anch’egli dipendente dell’Fbi, colpito dalla racconto della moglie di Hanssen (sua sorella) che gli aveva detto che sua sorella, Jeanne Beglis, aveva trovato un mucchio di contanti su un comò della casa Hanssen. Ma il suo superiore non ha fatto nulla a proposito.

Caduta l’Unione Sovietica e passato un breve periodo, Hanssen aveva lavorato anche con la neonata Russia. Ma con metodi ben più spregiudicati e rischiosi. A inizio 2001 aveva iniziato a percepire qualcosa. Nell’ultima lettera scritta ai russi spiegava di essere stato promosso a un “lavoro inutile”, “al di fuori del regolare accesso alle informazioni”, e che “qualcosa ha risvegliato la tigre addormentata”. Sarebbe stato il suo giovane nuovo assistente, Eric O’Neill, esperto di sorveglianza, a trovare le prove per l’arresto avvenuto il 18 febbraio di quell’anno, nei pressi di un dead-drop nel Foxstone Park, a Vienna, in Virginia. L’Fbi aveva aspettato due giorni sperando che qualcuno dell’intelligence russa si presentasse a ritirare quel sacco della spazzatura pieno di materiale classificato posto con del nastro adesivo sotto una passerella di legno sopra un torrente. Ma nessuno si palesò e il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti annunciò l’arresto della talpa. Servirono due scatti per la foto segnaletica, visto che l’uomo tentava di oscurare il codice sulla lavagna – un altro, questa volta inutile, segnale di spregiudicatezza, sfacciataggine e sicurezza di sé. Si dichiarò colpevole per 15 capi di imputazione.

Hanssen, Ames e l’ex Cia Edward Lee Howard (morto in Russia, dove era scappato) sono ritenuti i tre più importanti traditori dell’intelligence statunitense dopo la Seconda guerra mondiale. Ce ne potrebbe essere un quarto. O almeno è quanto ipotizza il libro “The Fourth Man: The Hunt for a KGB Spy at the Top of the CIA and the Rise of Putin’s Russia” (Hachette Books) scritto da Robert Baer, ex “case officer”, cioè un ufficiale che gestisce risorse e agenti. L’autore accusa Paul J. Redmond, già vicedirettore della Cia per le operazioni e il controspionaggio, di essere il “quarto uomo”, di aver sabotato il lavoro di controspionaggio dell’agenzia lavorando agli ordini di Mosca. Il libro di Baer illustra come, a metà degli anni Novanta, la direzione operazioni della Cia abbia deciso di indagare su questi sospetti, istituendo una Special Investigations Unit. A capo c’era uno dei più talentuosi ufficiali del controspionaggio dell’agenzia, Redmond, che secondo Baer sarebbe il “quarto uomo” scomparso nel nulla. A questa conclusione sarebbe giunta perfino la Special Investigations Unit che avrebbe presentato i risultati dell’indagine durante un briefing con Redmond tra i presenti (che non ricorda un simile incontro). Baer ha parlato con Redmond almeno due volte durante la preparazione del suo libro. Redmond ha sempre respinto le accuse tirando in ballo la “sindrome di Angleton” all’interno della Cia. Il riferimento è a James Jesus Angleton, che è stato capo del personale di controspionaggio della Cia dal 1954 fino alle sue dimissioni in seguito allo scandalo Watergate. Sulla rivista International Journal of Intelligence and Counterintelligence, Redmond descrive Angleton come un uomo guidato da “una convinzione quasi religiosa che il Kgb fosse penetrato nella Cia”. Angleton rimane divisivo: per alcuni è modello di controspionaggio, per altri ha distrutto la Cia con tattiche che hanno creato un’“atmosfera kafkiana” e hanno danneggiato l’agenzia più di quanto il Kgb abbia mai fatto.


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