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Da Tsushima all’Ucraina, cosa insegna la storia delle guerre (e disfatte) russe

Un’azione militare prevista come celere e vittoriosa si sta invece rivelando una ferita che sanguina sempre di più. La Russia corre dei rischi che non può permettersi di ignorare. E il suo passato porta le tracce delle possibili conseguenze

Nel vocabolario russo esiste un termine molto particolare, impossibile da rendere appieno nella nostra lingua: державность, traslitterabile in caratteri latini come derzhavnost. Una traduzione letterale dal cirillico all’italiano vedrebbe come risultato il lemma ‘potenza’. Ma per cogliere appieno tutte le sfumature che il termine russo contiene dentro di sé dobbiamo guardare oltralpe e prendere uno dei più noti termini francesi: grandeur. Sia il lemma russo che quello francese indicano il senso di grandezza innato nello stato; senza quello, lo stato non può esistere. Non è degno di farlo.

All’alba del 24 febbraio 2022, migliaia di pezzi d’artiglieria made in Russia (o meglio, made in Ussr) aprono il fuoco sulle postazioni trincerate dell’esercito di Kyiv.
In un comunicato rilasciato poche ore dopo, il presidente Vladimir Putin annuncia ufficialmente l’inizio dell’Operazione militare speciale in Ucraina. Utilizzare il termine guerra è pericoloso, rischierebbe di ingigantire una così piccola questione destinata ad esaurirsi in un paio di settimane. L’invasione dell’Ucraina dev’essere una Crimea 2.0: efficace, rapida e indolore.

Giugno 2023. Sono passati 15 mesi dall’inizio del conflitto. Nonostante le rapide avanzate dei primi giorni, i russi non sono riusciti ad arrivare a Kiyv e a piegare la resistenza nemica. Gli ucraini non sono più quelli di 10 anni prima, anche grazie al sostegno degli alleati occidentali. La guerra di manovra è diventata una guerra di trincea, un tritacarne dove la migliore gioventù russa, carente di equipaggiamento e di sufficiente addestramento militare, viene mandata al macello. Il governo di Mosca ha dovuto persino ricorrere a una mobilitazione parziale per avere forze sufficienti da schierare al fronte, scoprendo che buona parte dei suoi cittadini preferisce fuggire dal paese piuttosto di essere arruolato. Sul versante russo del fronte iniziano a spuntare come funghi unità che non rispondono al ministero della Difesa e ai vertici militari. Sono milizie private di potenti leader locali, come il ceceno Ramzan Kadyrov, e gruppi di contractors affiliati ad aziende o ad organizzazioni private. Sui media occidentali i nomi della Wagner e del suo leader Yevgeny Prigozhin compaiono oramai con una frequenza inaudita.

In questa situazione, i contraccolpi della guerra cominciano anche a pesare sul fronte interno. Alla fine di maggio, Mosca è stata colpita da un attacco di presunti droni ucraini. I danni materiali sono quasi inesistenti, ma l’effetto piscologico è devastante. La capitale non era oggetto di un attacco aereo sin dal 1941, quando gli ordigni venivano sganciati da velivoli con la croce uncinata sulle ali: gli stessi nazisti che ora la Russia sta combattendo con successo in Ucraina, secondo il presidente Putin. Ma che sono ancora in grado di attaccare Mosca, nonostante l’enorme distanza tra la città e il territorio sotto controllo ucraino. Senza che l’establishment riesca ad impedirlo.

Negli stessi giorni, l’oblast russo di Belgorod è soggetto ad un fenomeno molto particolare. Sedicenti combattenti russi che si oppongono al regime di Putin occupano dei piccoli insediamenti alla frontiera e prendono prigionieri dei coscritti russi. Il governo di Kyiv nega ogni coinvolgimento nella questione, mimando i comportamenti avuti da Mosca nel 2014 al momento dello scoppio della crisi in Donbass. L’Operazione militare speciale ormai è una guerra, ed è arrivata in casa. Mentre anche Prigozhin (considerato come uno dei fedelissimi di Putin) alza sempre più il tiro contro il governo e i militari, il disfattismo nell’opinione pubblica russa continua a diffondersi. Un caso è esemplare: durante un talk-show andato in onda sul canale di stato Ntv, l’editor in chief di Russia Today Margarita Simonyan evoca lo spettro del 1917. Non è un monito da prendere alla leggera.

La storia russa offre numerosi esempi di come la politica estera e la guerra possano influire sulla stabilità interna del paese. Soprattutto in caso di débâcle. Lo stato russo si considera potente per natura (vedasi il senso di derzhavnost di cui sopra), e la sua eventuale sconfitta è attribuibile solamente ai suoi governanti, incapaci di condurre il popolo alla vittoria.

Nel 1905, l’impero russo è una delle grandi potenze mondiali. La sua forza militare non ha rivali, perlomeno in termini numerici. In realtà il paese è arretrato, e la corruzione dilaga. Ma questi problemi non affiorano alla superficie, e all’apparenza la potenza militare dello Zar non teme rivali. Così quando nel 1904 il Giappone, uno degli ultimi arrivati sulla scena internazionale, osa opporsi alla Russia, a Mosca si celebra l’opportunità di dare sfoggio della propria superiorità militare, di rimettere a posto il piccolo paese asiatico, e anche di espandere i confini dell’impero fino alla Corea allora occupata dai giapponesi. Alla flotta del Baltico (la punta di diamante della Marina russa) viene dato ordine di salpare verso il Pacifico, con l’ordine di sbaragliare il nemico.
Quando arriva la notizia della disfatta di Tsushima, il paese entra in crisi. A San Pietroburgo gli operai danno il via ad una rivoluzione e creano i primi Soviet, mentre a Odessa si verifica l’ammutinamento della corazzata Potemkin. I disordini si allargano in tutto il paese, e solo una sanguinosa repressione ordinata dallo Zar impedisce il collasso dello Stato.

Dieci anni dopo, gli eventi assumono una piega simile.  Nel 1914 la Russia entra nella Prima Guerra Mondiale contro gli Imperi Centrali, convinta che il suo esercito avrà presto ragione di eserciti nemici considerati come inferiori. Dopo meno di due mesi arriva la prima disastrosa sconfitta a Tannenberg: è solo la prima di una lunga serie. Il malumore serpeggia forte tra i soldati, mentre il popolo soffre le privazioni della guerra. Il punto di rottura arriva nel 1917. Ma al contrario di quanto avvenuto un decennio prima, stavolta non si può usare l’esercito per sopprimere i focolai di rivolta: è anzi proprio nell’esercito che questi focolai si alimentano. L’apparato imperiale crolla, e dalle sue ceneri nasce l’Unione Sovietica.

L’Operazione Barbarossa rappresenta l’esempio opposto. Quando i tedeschi invadono nel Giugno del 1941, la Russia comunista sembra pronta a crollare. Ma stavolta l’invasione è subita, e tutti i cittadini si mobilitano per difendere il proprio paese. Stalin proclama la Grande Guerra Patriottica. L’avanzata nazista viene bloccata alle porte di Mosca nel Dicembre 1941. Un anno dopo, nasce la leggenda di Stalingrado. Quando la Germania firma la resa incondizionata nel 1945, l’Unione Sovietica assurge al rango di superpotenza mondiale.

Rimarrà tale per 50 anni, e sarà un altro conflitto a contribuire al suo collasso. Quando nel 1979 il segretario del Pcus Leonid Breznev ordina l’intervento militare in Afghanistan, ci si aspetta un impegno lampo per ristabilire rapidamente l’influenza sul paese. L’Armata Rossa ci rimarrà impantanata per 10 anni, per poi ritirarsi con la coda tra le gambe dopo aver sacrificato troppe vite umane e risorse economiche sulle montagne dell’Asia Centrale. È il 1989. L’Unione Sovietica, già indebolita dalle liberalizzazioni promosse da Gorbachëv, non riesce ad incassare il colpo. L’esperienza comunista si avvia al suo epilogo.

Dopo quasi 500 giorni dall’inizio di un’invasione che sembrava destinata a durare poche ore, la Russia inizia a mostrare segni di cedimento. Nonostante ci siano forti similitudini con i casi passati, non è possibile prevedere quali dinamiche possano verificarsi nella situazione odierna. La Federazione Russa di oggi non è l’Impero del diciannovesimo secolo, né tantomeno l’Unione Sovietica (anche se forse sogna di esserlo). Queste realtà sono ormai parte della storia, e come tali appartengono a un mondo che non c’è più. Forse anche per i propri errori, che ogni leader dovrebbe evitare di ripetere. Purtroppo, come diceva un grande personaggio italiano, “La Storia insegna, ma non ha scolari”.

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