“La paura dei taiwanesi è di subire lo stesso trattamento dell’Afghanistan, abbandonato al proprio destino”, spiega il vicepresidente del Senato reduce da una missione a Taipei. Servono azioni per il mantenimento dello status quo, aggiunge. E se è vero che la nostra bilancia commerciale nei confronti della Cina in questi anni è peggiorata, “possiamo pensare che sia possibile esplorare diverse forme di collaborazione” oltre il memorandum d’intesa sulla Via della Seta
“L’Occidente deve mettere in campo ogni possibile azione rivolta al mantenimento dello status quo” di Taiwan, dice Gian Marco Centinaio, vicepresidente del Senato ed esponente della Lega, in questa intervista a Formiche.net.
Dopo aver incontrato la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e alcuni ministri, lei ha dichiarato che l’Italia “continuerà a impegnarsi per favorire la sicurezza dell’isola e dello stretto di Taiwan”. Quali strumenti ha l’Italia a sua disposizione?
L’Italia è un partner considerevole per Taiwan, sia sul piano politico che su quello economico. La missione mia e della senatrice Elena Murelli, come componenti del gruppo parlamentare di amicizia, è stata la più rilevante sul piano istituzionale realizzata negli ultimi anni sull’isola da rappresentanti italiani. È stato un segnale che la presidente, i ministri, il presidente del Parlamento e i parlamentari taiwanesi che abbiamo incontrato hanno colto con estrema fiducia. Ma non è l’unico: il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è espresso esplicitamente a sostegno dello status quo a Taiwan; il capo dell’Ufficio italiano di promozione economica, commerciale e culturale a Taipei, Davide Giglio, sta svolgendo un ottimo lavoro; il numero degli addetti all’ufficio dell’ICE è recentemente aumentato; Taiwan aprirà un ufficio di rappresentanza anche a Milano, oltre a quello già presente a Roma, ed è già stato inaugurato un nuovo volo diretto Milano-Taipei. Infine, la Marina Militare è presente in queste settimane nell’area del Sud-Est asiatico con il pattugliatore d’altura “Francesco Morosini” e ha annunciato il prossimo invio anche della nostra ammiraglia, la portaerei “Cavour”. Sono tutti segnali di attenzione per un’area strategica sotto il profilo politico, economico, tecnologico e militare che danno prestigio all’Italia agli occhi dei Paesi interessati e dei partner internazionali.
Che cosa chiede Taiwan?
Taiwan chiede all’Italia e all’Occidente di non essere lasciata sola. La paura dei taiwanesi è di subire lo stesso trattamento dell’Afghanistan, abbandonato al proprio destino. Ma in quell’isola risiede un importante presidio di democrazia che merita di essere sostenuto e coltivato. Ogni segnale di attenzione è quindi utile e ben visto da loro.
C’è modo di far desistere la Cina dai suoi piani di una “riunificazione” con Taiwan che violerebbe lo status quo?
Il nostro obiettivo rimane il mantenimento dello status quo, con il riconoscimento del principio di un’unica Cina e la possibilità per Taiwan di proseguire il proprio percorso nel segno della democrazia e dello sviluppo. È quello che chiede anche la maggior parte della società e degli imprenditori taiwanesi, anche se i nuovi equilibri politici andranno verificati con le elezioni presidenziali di inizio 2024. Di sicuro, Taiwan starà bene attenta a non rispondere ad alcuna provocazione di Pechino, per non prestare il fianco a possibili ritorsioni.
L’Occidente che cosa dovrebbe fare?
L’Occidente deve mettere in campo ogni possibile azione rivolta al mantenimento dello status quo. Non possiamo illuderci né ambire a condizionare facilmente i piani cinesi, ma – riconoscendo la centralità di Pechino negli equilibri mondiali – possiamo creare le condizioni affinché la diplomazia possa essere lo strumento principale di confronto. Da questo punto di vista, l’approccio multilaterale che caratterizza la tradizione diplomatica italiana può essere molto utile. La missione in Cina del segretario di Stato americano Antony Blinken e l’incontro (inizialmente non previsto) con il presidente Xi Jinping sono segnali importanti per la ripresa di un dialogo tra Washington e Pechino. La “questione Taiwan” rimane l’elemento di maggiore distanza tra le due potenze e, per questo, non dobbiamo sopravvalutare quanto è avvenuto nei giorni scorsi. Blinken è stato attento a precisare che gli Stati Uniti non sosterranno l’indipendenza dell’isola, che romperebbe l’attuale equilibrio. Altrettanto importante è la ricerca di un confronto (più complicato) per evitare che incidenti militari nell’area indo-pacifica possano degenerare, compromettendo in primo luogo la sicurezza di Taiwan, ma a quel punto anche dell’intero scenario internazionale.
Intervistato da Politico nel suo tour europeo che ha toccato anche Milano, Joseph Wu, ministro degli Esteri di Taiwan, ha invitato l’Europa a pensare a “un quadro più ampio di migliori relazioni con Taiwan, economiche o di altro tipo”, oltre la sola questione semiconduttori. La sua visita a Taiwan è servita anche a questo?
Il ministro Wu è stato uno dei nostri interlocutori a Taipei e mi ha confermato anche personalmente il suo impegno nel cercare di costruire un quadro di relazioni ampio e stabile con i Paesi che si riconoscono nei valori della democrazia e della libertà. Con lui e con altri membri del governo abbiamo discusso di tanti aspetti e aree di attività che potranno contribuire a rafforzare i rapporti con l’Italia. In linea generale, la sensazione che ho avuto – non solo nel corso degli incontri, ma anche nei negozi o passeggiando per strada – è che a Taiwan ci sia una grande voglia di Italia e di Made in Italy. Siamo già i più grandi esportatori di farmaci sull’isola. La nostra moda, i prodotti di arredamento e quelli agroalimentari sono visti (giustamente, aggiungo) come eccellenze di grande valore. C’è una profonda ammirazione per la nostra arte e la nostra cultura. In tanti vorrebbero venire a conoscere direttamente il nostro Paese, anche per investire qui, mentre circa un migliaio di italiani già vive e fa affari a Taiwan. L’esperienza delle imprese taiwanesi in campo tecnologico può aiutarci a contrastare con più efficacia gli effetti del cambiamento climatico. Le opportunità di scambi commerciali e di crescita reciproca, insomma, sono enormi.
Anche nell’agroalimentare?
Per i temi di cui mi sono occupato in passato nel governo italiano, ho parlato con il ministro dell’Agricoltura Chen Chi-chung dell’abbattimento di alcune barriere commerciali che ancora esistono rispetto alle importazioni di agrumi, pere e carne bovina e anche dello sblocco almeno della carne suina lavorata e confezionata, sottoposta ancora a una sospensione negli ingressi a causa della peste suina africana. Un altro aspetto rilevante riguarda le nostre bollicine: il vino italiano è sottoposto a dazi doppi rispetto a quello francese e questo sta compromettendo la nostra quota di mercato, a vantaggio di quella transalpina. Bisogna lavorarci e l’attenzione crescente del nostro attuale governo nei confronti di Taiwan può consentire di portare a casa anche questo risultato.
Nel marzo 2019 il governo gialloverde presieduto da Giuseppe Conte, in cui lei era ministro dell’Agricoltura, ha firmato il memorandum d’intesa sulla Via della Seta con la Cina. Che bilancio traccia di quell’intesa dopo più quattro anni?
Non spetta a me fare bilanci. Allora la firma del Memorandum fu sostenuta convintamente dal presidente Conte e non credo che abbia molto senso chiederci oggi se sia stato un errore o meno. Guardiamo avanti.
A fine anno il governo Meloni dovrà decidere se uscire dal memorandum d’intesa o lasciare che si rinnovi automaticamente a marzo per altri cinque anni. Lei che cosa farebbe?
Il governo ha a disposizione tutti i dati numerici e di contesto internazionale per poter fare la propria valutazione ed è quello che sta facendo, senza pregiudizi e con realismo. Se è vero che la nostra bilancia commerciale nei confronti della Cina in questi anni è peggiorata, mentre altri Paesi che non partecipano alla Belt and Road Initiative hanno visto crescere maggiormente le proprie esportazioni, allora possiamo pensare che sia possibile esplorare diverse forme di collaborazione con Pechino. Questo non significa aprire uno scontro, ma semplicemente rimodulare i rapporti di comune accordo, come già fanno gli altri principali Paesi europei, senza che questo comprometta le relazioni diplomatiche e commerciali. Non capirei perché quello che vale per Francia, Germania o Spagna non possa valere eventualmente per noi.
Crede che in caso di uscita italiana la Cina potrebbe reagire duramente con misure coercitive?
C’è tutto l’interesse reciproco a mantenere le relazioni tra Italia e Cina, anche se valori e prospettive possono essere a volte divergenti. L’Italia è un grande Paese libero e democratico e fa giustamente della propria tradizione diplomatica un motivo di vanto, che tutti ci riconoscono. Abbiamo il diritto e il dovere di dialogare anche con chi appare lontano da noi, ma difenderemo sempre i principi e gli interessi nazionali. Credo sia un’aspirazione legittima.