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Meloni la pragmatica in viaggio verso gli Usa. Parla Bergmann (Csis)

Con pragmatismo su Ucraina e in Ue, la presidente del Consiglio ha conquistato la fiducia americana. Il viaggio è “un’importante dimostrazione di sostegno a questo tipo di politica”, spiega a Formiche.net Max Bergmann, direttore del programma Europa, Russia ed Eurasia del Center for Strategic and International Studies

Quello di domani alla Casa Bianca tra Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, sarà un “incontro molto cordiale”, dice Max Bergmann, direttore del programma Europa, Russia ed Eurasia del Center for Strategic and International Studies di Washington, a Formiche.net.

Le preoccupazioni americane sono superate?

Credo che ci sia stata una certa preoccupazione, non solo negli Stati Uniti, ma in tutta Europa, vista la partecipazione di Meloni alla Conservative Political Action Conference, che è associata all’ultra-destra americana, e le radici fasciste del suo partito. Tuttavia, credo che la preoccupazione maggiore sia stata, almeno nella prospettiva di Washington, per i partner della sua coalizione, alla luce dei legami di Matteo Salvini con la Russia e l’ammirazione di Silvio Berlusconi per Vladimir Putin.

E ora?

Meloni ha avuto un approccio molto pragmatico e credo che la sua posizione transatlantica sia stata accolta con sollievo a Washington. È stata molto coerente e forte nel sostenere l’Ucraina contro la Russia. Inoltre, c’erano timori per un nuovo ciclo di tensioni e disfunzioni all’interno dell’Unione europea. Ma è stata pragmatica e non ha dato vista a un asse con l’Ungheria di Viktor Orbàn.

Che cosa aspettarsi da questa visita a Washington?

Questo viaggio a Washington è un’importante dimostrazione di sostegno a questo tipo di politica estera più pragmatica che stiamo vedendo da Meloni. Ci sono chiare differenze su molte questioni culturali ma l’Italia è un Paese molto importante, la terza economia d’Europa. Sarà un viaggio molto pragmatico per rafforzare le relazioni italo-americane e il rapporto transatlantico. E scommetto che si parlerà molto anche della Cina e del fatto che l’Italia è firmataria della Via della Seta, delle preoccupazioni americane al riguardo e di ciò che pensiamo stia facendo la Cina in Europa.

Come sta cambiando l’approccio degli Stati Uniti verso la Cina alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina?

Il “soft reset” cercato con la Russia per creare una sorta di spaccatura tra la Russia e la Cina, si è chiaramente ritorto contro. Ora l’obiettivo principale è cercare di far capire alla Cina che sostenere militarmente la Russia in questa guerra avrebbe implicazioni terribili e sarebbe molto negativo. Per certi versi, gli europei hanno fatto molto per trasmettere questo concetto. Ma credo anche che negli ultimi due anni gli Stati Uniti abbiano adottato una linea molto dura nei confronti della Cina. Ora si sta cercando di stabilire una sorta di linea rossa nelle relazioni, inviando un chiaro segnale alle aziende statunitensi, ma anche a quelle europee, che gli Stati Uniti sono disposti a sanzionare la Cina e a impedirle di ottenere determinate tecnologie avanzate. L’unica cosa che gli Stati Uniti e la Russia hanno capito, nel corso di molti decenni di tensioni, è come interagire in modo da limitare la tensione, la competizione e la potenziale escalation del conflitto. Oggi c’è il timore che, essendo la Cina relativamente nuova sul palcoscenico globale, non ci sia lo stesso tipo di meccanismi di de-conflitto e di comprensione di base che abbiamo essenzialmente con i russi.

L’idea di una “terza via” europea tra Stati Uniti e Cina è tramontata?

Non credo che l’Europa non abbia interesse a un Indo-Pacifico libero e aperto o che gli europei non percepiscano le azioni che la Cina sta intraprendendo sul mercato cinese e le misure di repressione nei confronti delle aziende occidentali. A volte le differenze di tono nelle relazioni con la Cina vengono sopravvalutate. Per certi versi, non vedo molta differenza tra la politica francese nei confronti della Cina e quella degli Stati Uniti. Probabilmente c’è più divergenza tra gli Stati Uniti e la Germania, anche se ci sono meno notizie su questo.

Si avvicinano le elezioni presidenziali di novembre 2024. La politica estera statunitense cambierà?

Spesso viene sopravvalutato il modo in cui le elezioni influiscono sulle decisioni di politica estera. Invece sarà importante vedere, il 30 settembre prossimo, quanti soldi il Congresso stanzierà per continuare a sostenere militarmente ed economicamente l’Ucraina. In vista delle elezioni, passi diplomatici potenzialmente impopolari o facilmente attaccabili, come sedersi al tavolo con Putin o con gli iraniani, tendono a essere rimandati al secondo mandato, quando il presidente in carica non correre per la rielezione, come accaduto con l’accordo nucleare iraniano. Ciò potrebbe complicare l’eventuale tentativo di negoziare la pace. Ma non lo farà, perché sarà un processo guidato dall’Ucraina. Quindi penso che la politica estera non cambi molto nell’anno prima delle elezioni, si tende allo status quo. È vero però che alcune persone possono iniziare a lasciare il loro incarico: non ha un grosso impatto all’esterno ma ciò può essere in qualche modo destabilizzante.

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