Grandi spazi, potenze terrestri contro potenze marittime, superamento dell’eurocentrismo, stato d’eccezione, guerra e politica. È l’alta marea di un mondo che non tramonta. Sono gli oggetti, gli arcana imperii dell’universo schmittiano e meritano una seria riflessione, un’azione alta, degna del suo pensatore. Oggi, in occasione del 135° compleanno del giurista di Plettenberg, sarebbe opportuno riprendere il filo del discorso. Soprattutto in quanto europei. Perché Cina e Stati Uniti sembrano aver colto l’utilità e il valore del suo lavoro, al di là dei luoghi comuni, delle liste nere e dei volti del terrore
Plettenberg, 11 luglio 1888.
È certo che luogo e data sopracitati scuoteranno la memoria dei rari addetti ai lavori, della ristrettissima cricca di studiosi e seguaci che colgono tra le incontaminate valli del Sauerland il richiamo, l’appartenenza ad una delle più importanti succursali della scuola del realismo politico. Tuttavia, seppur in alcuni casi lo facciano inconsapevolmente, molti degli attuali leader europei e internazionali si servono delle sue opere per legittimare la visione e la postura della propria nazione nel sistema mondo.
Centotrentacinque anni fa, in un ambiente marcatamente evangelico-protestante, nasceva Carl Schmitt. Un corvo bianco che non manca in nessuna lista nera, come amerà definirsi in seguito. Cresciuto “in un mondo che non si lasciava impressionare da niente” e all’interno di una famiglia profondamente cattolica, fin dalla tenera età Schmitt coltivò la frustrante ambizione tipica delle minoranze che ambiscono a divenire maggioranza. Sebbene, oggi come ieri, gli scritti del vituperato Kronjurist rappresentino una fonte di discordia, chiusure pregiudiziali, sentenze e rivalutazioni, e di fazioni intellettuali in lotta per l’interpretazione della Verità, è innegabile che Schmitt sia ancora oggetto e soggetto di interminabili polemiche per via della straordinaria attualità del suo pensiero.
Sì, Schmitt dividit et definit. Separa e perciò esplicita gli avversari in campo, rende chiara la posta in gioco. Liberalismo vs potere autocratico, legalità vs legittimità, grundnorm vs autonomia del politico, ordinamento sovrastatale vs decisionismo. Millennio di crisi e di critica. Occidente collettivo e Oriente che rischia di farsi futuro unico. Non sono queste le dicotomie fisse attorno alle quali ruotano gli attori delle dinamiche geopolitiche odierne? Non sono, forse, queste le arene dialettiche che pullulano di politologi, accademici, opinionisti, giornalistici, storici e chi più ne ha più ne metta?
Di recente, dopo anni di oblio e di egemonia esercitata dal politically correct che, come ricordò Francesco Cossiga (grandissimo estimatore del giurista di Plettenberg) dal 1989 in poi ha soppiantato il linguaggio dello Stato con la retorica dei diritti umani, Schmitt approda simultaneamente sulle rive del Mar Giallo e dell’Atlantico, oscillando tra le aule della Columbia University e quelle della East China. E al di là delle solite filippiche (a tratti superficiali e superate dalle Risposte a Norimberga) che accomunano tanto alcune menti cinesi, come Xu Ben, e accademici americani come Stephen Holmes, Schmitt riesce a sorprendere ancora una volta facendosi strumento appetibile per giustificare la teoria dei grandi spazi che tanto entusiasma le due grandi potenze rivali.
Entrambe riconoscono nelle categorie schmittiane numerosi capisaldi della propria politica estera e interna, della sempreverde volontà di potenza.
In primis, la contrapposizione amico-nemico, intesa ovviamente non come uno scontro tra individualità eterogenee, ma tra entità collettive, che durante l’estate del 2022 stava per condurre al collasso le relazioni bilaterali tra Washington e Pechino, dopo le dichiarazioni di solidarietà espresse da Nancy Pelosi, e quindi dalla Casa bianca, alla “vibrante democrazia” di Taiwan. Per stemperare la situazione dovette intervenire l’allora novantanovenne Kissinger, eccellente discepolo della realpolitik, e sfoderare dal cilindro la necessità di una flessibilità nixoniana.
Una linea, identificabile nello stretto di Bering, che non solo distanzia la civiltà occidentale da quella confuciana, ma che stabilisce automaticamente alleati ed eserciti rivali. Anglosfera contro il nostalgico imperialismo russo e le mire egemoniche del Dragone. Il tutto basato sui dettami di un diritto internazionale anomico e sulla criminalizzazione del concetto di guerra.
L’amico-nemico, dunque, orienta ancora la foreign policy dei nuovi Golia che interpretano il Großraum come uno spazio modellato da un comando egemone, portatore del motore organizzativo dello Stato e capace di oltrepassare i vecchi confini geografici, “terrestri”, attraverso la talassopolitica, la gestione e il monopolio della tecnica scatenata. Uniti nei rispettivi istinti universalistici.
Le divergenze sorgono nel momento in cui si tenta di adattare Schmitt ai rispettivi contesti nazionali. In Cina, se da una parte le conquiste teoriche consolidate nel pensiero schmittiano vengono accostate al maosimo e perciò impiegate per comprendere la natura del capitalismo di stato e per scongiurare il ripetersi di uno spargimento di sangue, dall’altra servono per giustificare il guanto di sfida lanciato agli yankee, potenza extraeuropea che Schmitt additò come responsabile ultima del tramonto dello Jus Publicum Europaeum. Gli americani, invece, o meglio i radicali che protendono più alla difesa dei benefici insiti nell’isolazionismo che alla politica di intervento (oltre ai fondatori e ai sostenitori della rivista Telos, la quale contribuì alla divulgazione degli scritti schmittiani negli States), utilizzano Schmitt come chiave di lettura per leggere le cause e gli esiti dei cambiamenti geopolitici e per architettare la propria presenza su scala planetaria.
Joseph Bendersky, richiamando La sfida dell’eccezione di George Schwab, da dottorando alla Michigan State University, si era progressivamente convinto “che il suo approccio era molto più promettente dei dogmi esistenti”, e concentrò l’attenzione sul binomio Schmitt-Hobbes. E fu proprio Bendersky a incoraggiare i lettori ad abbandonare i luoghi comuni che connotavano (e connotano) la vulgata, la retorica liberale, anti-schimittiana per focalizzarsi sull’eredità del suo lavoro intellettuale. Infatti, le conclusioni a cui giunge risultano chiare: Schmitt appoggiò i tentativi di Schleicher di fermare i nazisti, e a questo scopo invocò l’esercizio dei poteri eccezionali di Hindenburg. Conclusioni che miravano a smontare le accuse del Times e del Daily Mail riguardo un sedicente ruolo del corvo bianco nel disegno espansionistico della politica hitleriana. Niente di più falso. E la magnificenza e la gloria americana avevano bisogno del pensiero di Schmitt per orientarsi nel presente. Lo scritto di Schwab ne era la prova.
“La storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime” scriveva Schmitt nel suo Land und Meer. Gli stessi protagonisti che oggi intendono proclamarsi sovrani sullo stato d’eccezione.
Mosca invade l’Ucraina, l’Europa si spacca tra sovranisti che scorgono nella potenziale disfatta di Putin una revanche indipendentista ed euroscettici che non intendono fare a meno della cooperazione con il Cremlino (inutile rispolverare le peripezie del Nord Stream 1-2, del Baltic Pipe e le moine magiare), la Cina sta alla finestra a guardare (perché grande è la confusione sotto al cielo quindi la situazione è eccellente) mentre tramite una timida mediazione potenzia il suo risveglio, Ankara tenta di ricostruire una propria posizione a livello internazionale e una certa credibilità diplomatica, e Washington tenta di giungere a un negoziato senza ritirare l’appoggio incondizionato a Kiev.
Già, stato d’eccezione dilatato al massimo. In questo maelstrom è possibile interrare un nuovo nomos? Schmitt si sarebbe posto il problema.
E, al di là dei due poli dominanti, dovrebbe porselo anche l’Europa a cui Schmitt fu tanto fedele.
E l’Italia. Dove il primato della politica ha emulato la nottola di Minerva, tuffandosi nel rosso del tramonto. L’autonomia del politico un classico, ergo sinonimo di vecchio e reazionario. Eppure, bisognerebbe mostrare sincera riconoscenza a coloro, pochi e di diversa estrazione politica, che hanno avuto il coraggio e l’onestà di introdurre il più grande avventuriero intellettuale del Novecento nel panorama nazionale. Gianfranco Miglio, Mario Tronti (comunista e schmittiano dichiarato, e che ha colmato il pensiero marxiano attraverso la critica della politica e la teoria dello stato elaborate dal corvo bianco) Massimo Cacciari e Carlo Galli. Soprattutto Galli. Schmittologo per antonomasia, autore del saggio sulla fortuna italiana di Schmitt fino al 1978 e della monumentale Genealogia della politica, Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, nonché reduce della prima edizione integrale de Il diritto di guerra e di pace di Ugo Grozio, e citato ripetutamente da Jean-François Kervégan nel suo Che fare di Carl Schmitt?
La sfida reale, che tutto può cessare di essere tranne che contemporanea, specialmente nel tempo della corsa all’intelligenza artificiale e segnata dal fondamentalismo progressista, rimane quella lanciata dallo storico Rüdiger Altmann, alter ego di Schmitt in Dialogo sul potere: “Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla luna. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Eracle”.
E chissà se ci sarà qualcuno in grado di farcela. D’altro canto, i corvi bianchi sono esemplari rari…ma non del tutto estinti. Il mondo cambia, ma i temi individuati da Schmitt restano attuali, gli strumenti di lettura ancora validi. Perché Schmitt è questo: un classico. L’ultimo.