Molte cose, nel modo in cui è stata rappresentata la vicenda, andrebbero corrette. Innanzitutto, come è stato detto, davvero “Pechino decide, il papa esegue”? Basterebbe riflettere sulla definizione che il cardinale Parolin ha dato di Shen Bin: “pastore stimato”. La Chiesa quindi ne ha un buon giudizio e non sembra forzato pensare che non sia contraria alla sua scelta come vescovo di Shanghai… Il commento di Agostino Giovagnoli
I rapporti tra Santa Sede e Cina soffrono di una narrazione per più versi problematica da parte di stampa e mass media. Pochi giorni fa, mentre Francesco nominava Joseph Shen Bin vescovo di Shanghai, ancora una volta il card. Pietro Parolin ha tentato pazientemente di fare chiarezza. Ma non sembra sia stato ascoltato e capito.
C’è chi ha sintetizzato brutalmente: “Pechino ordina, Francesco obbedisce”. Molti hanno presentato come una certezza che il trasferimento di mons. Shen Bin sia stato una violazione dell’Accordo e poco conta se il card. Parolin ha detto “stiamo cercando di chiarire questo punto, in un dialogo aperto”. Il vescovo Shen Bin sarebbe per alcuni “una figura organica al Partito”, mentre il Segretario di Stato lo ha definito un “pastore stimato”. Molti sono sicuri che la diocesi di Shanghai rifiuti Shen Bin come nuovo vescovo, ma chi ha avuto contatti diretti con i fedeli di questa diocesi sa che le cose non stanno in questo modo. E così via. Pochi temi oggi suscitano così tante critiche, discussioni, polemiche, nonché – è la cosa più singolare – forti reazioni emotive e comportamenti fuori misura, come quello dei rapporti sino-vaticani.
Molte cose, nel modo in cui è stata rappresentata questa vicenda, andrebbero corrette. Anzitutto: davvero “Pechino decide, il Papa esegue”? Basterebbe riflettere sulla definizione che Parolin ha dato di Shen Bin: “pastore stimato”. La Santa Sede, dunque, ne ha un buon giudizio e non sembra forzato pensare che non sia contraria alla sua scelta come vescovo di Shanghai (c’è chi ritiene che fosse addirittura lui il candidato di Roma). Ma se le cose stanno così, perché il Papa non avrebbe dovuto nominare a Shanghai un vescovo legittimo (già nominato, cioè, senza problemi da Benedetto XVI nel 2010 per la diocesi di Haimen), stimato, idoneo e più adatto di altri? La Santa Sede avrebbe dovuto lacerare la diocesi di Shanghai, infliggere un colpo pesantissimo a tutta la Chiesa in Cina e, in definitiva, farsi del male da sola per rifiutare il vescovo che voleva? Se si guarda alla persona, insomma, non si vede la vittoria di Pechino sulla Santa Sede.
Certo, in questo trasferimento unilaterale c’è stato un problema di grande rilevanza per i rapporti tra le due parti, come ha detto chiaramente il card. Parolin. Ma, in primo luogo, non è senza significato che il Papa abbia poi nominato Shen Bin vescovo di Shanghai: quando qualcosa di simile è accaduto nel 1981, con Dominic Tang Yee-ming nominato da Giovanni Paolo II vescovo di Canton, la reazione cinese fu durissima; stavolta, invece, la nomina papale è stata ben accolta. E, in secondo luogo, come reagire a questo vulnus canonico? L’esperienza insegna che spesso le rivendicazioni astratte di sovranità sono sterili e controproducenti. Meglio puntare a un obbiettivo concreto, come indicato dal card. Parolin nell’intervista: convincere la controparte a non imporre più unilateralmente simili trasferimenti, anche perché non risponde al vero interesse cinese.
È un tentativo che mostra un eccesso di fiducia nell’interlocutore? O rivela la ricerca di una comprensione più profonda delle sue vere intenzioni? C’è qualcosa di assurdo in accuse di cedimento alla Santa Sede che non si chiedono quali siano veramente le posizioni della Cina. A volte, infatti, tali posizioni non sono immediatamente così chiare come le rappresenta chi parla di “vittoria” cinese. A ben vedere, in questa vicenda emerge una contraddizione che merita di essere approfondita. Che senso ha, dopo aver accettato – con l’Accordo del 2019 – di scegliere insieme alla controparte vaticana i nuovi vescovi – questione ben più rilevante -, che oggi le autorità cinesi pretendano di decidere unilateralmente sulla questione specifica del trasferimento dei vescovi? In realtà, di senso ne ha poco o nulla. Non a caso c’è chi riporta che “secondo fonti ben informate” potrebbe essere stata una decisione del Fronte Unito non condivisa dal ministero degli Esteri.
Il prof. Ren Yanli – grande esperto dei rapporti sino-vaticani recentemente scomparso – notava il pericolo costituito dagli eccessi di zelo dei funzionari cinesi che, soprattutto se alle prese della questione per la prima volta, gli chiedevano se si potessero risolvere una volta per tutte i problemi della Chiesa cattolica in Cina troncando i rapporti tra questa e il papa. Ren Yanli rispondeva con una battuta: nulla di più semplice, ma poi bisognerebbe cambiarle il nome perché non sarebbe più una Chiesa cattolica. Era il suo modo per spiegare alle autorità cinesi che possono regolare davvero i problemi di questa Chiesa solo trattando con il Papa. Sottoscrivendo l’Accordo del 2018, la Cina ha scelto di farlo e ciò rappresenta in un certo senso una polizza di assicurazione per la Chiesa cattolica in Cina. Abolirlo la metterebbe in grave pericolo. Non a caso il card. Parolin ha definito l’Accordo “storico” e “lungimirante”: più di così non avrebbe potuto dire. E gran parte della sua intervista è dedicata alla manutenzione, al miglioramento e alla estensione di tale intesa, per esempio aprendo un ufficio di rappresentanza in Cina.
Stranamente, pochi hanno dedicato attenzione a un altro punto che sembrerebbe confermare il “cedimento” della Santa Sede nei confronti di Pechino. Il comunicato vaticano che ha annunciato la nomina di Shen Bin a Shanghai si conclude così: “Dal 2022, mons. Shen Bin è anche Presidente dell’organismo denominato Collegio dei Vescovi Cattolici Cinesi”. Tale Collegio è stato creato dalle autorità cinesi e non è riconosciuto da Roma. Ciononostante, la sala stampa vaticana lo cita in un documento ufficiale. La spiegazione si trova nella parte dell’intervista in cui il card. Parolin dice: “La Santa Sede desidera veder crescere la responsabilità dei Vescovi nella guida della Chiesa in Cina, e per questo è necessario che si possa riconoscere quanto prima una Conferenza episcopale dotata di Statuti adeguati”. Anche su questo punto la sostanza non coincide con la forma. Come in altri casi, creando questo “Collegio” le autorità cinesi hanno cercato di prevalere sulla Santa Sede. Ma di fatto, senza volerlo, hanno posto le fondamenta di un organismo che va nella direzione auspicata da Roma: quella che i vescovi cinesi guidino la Chiesa in Cina. Chi vince e chi perde se la Santa Sede ne parla in un suo documento ufficiale? Anche se realizzata attraverso un percorso a dir poco irregolare, la costituzione di una vera Conferenza episcopale – e cioè “con altri statuti”– sarebbe una vittoria per entrambe le parti, senza nessun perdente.