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Codice Camaldoli, il modello democristiano a cui la destra può ispirarsi. Scrive Rotondi

I trenta italiani su cento che votano Meloni sono ancora loro, i nipoti e pronipoti di quelli che nel 1948 votarono Dc. Lei oggi può costruire qualcosa di assimilabile alla Dc, che diede un’anima democratica e sociale a una moltitudine a cui bastava opporsi vittoriosamente al comunismo. Il commento di Gianfranco Rotondi

Ormai a sinistra torna buono persino l’anniversario della fondazione della Dc, per suggerire che “si stava meglio quando si stava peggio”, e che la Meloni è il peggior nemico di sempre, peggio anche di Berlusconi, che sarà la riabilitazione prossima ventura. Dopo aver passato la giovinezza sperando di non morire democristiani, alcuni opinionisti politicamente corretti ora rivorrebbero indietro la Dc, e ne cantano lodi postume in occasione dell’ottantesimo compleanno della Balena Bianca.

Tutto legittimo, per carità: l’avversario di ieri è sempre preferibile, specie quando è morto, e riabilitarlo torna utile per denigrare il nemico di oggi. Il problema è che a sinistra non hanno ben capito le ragioni profonde del successo democristiano, e poi di quello berlusconiano, e ora delle glorie di Meloni.

Capisco che è difficile da accettare, ma il problema è proprio la sinistra italiana: la maggioranza degli elettori non la vuole al governo, né nella forma comunista, che produsse il regime democristiano, né in quella giustizialista, che causò il berlusconismo, e neppure nella versione tecnico-finanziaria, che ha aperto la via al trionfo di Giorgia Meloni.

Un uomo di destra intelligente come Pinuccio Tatarella amava dire che il sessantacinque per cento degli italiani non è di sinistra, e questo fronte può perdere solo per divisioni interne. Nella prima Repubblica il fronte anticomunista non si è mai diviso, semmai si è allargato ai socialisti; nella seconda Repubblica le divisioni sono avvenute, e talvolta la sinistra è andata al governo, seppur camuffata da destra; la terza Repubblica si apre con risultati elettorali, specie alle regionali, assai vicini per il centrodestra al mito tatarelliano del sessantacinque per cento.

L’anniversario del codice di Camaldoli ha una sua fascinazione: è chiaro che anche noi preferiamo i professori cattolici di ottanta anni fa ai politici di oggi che manco sanno dove si trova Camaldoli; è evidente che l’ispirazione cristiana ha rivestito l’anticomunismo di contenuti sociali più avanzati della stessa sinistra italiana del tempo; non v’è alcun dubbio sul valore ormai unanimemente riconosciuto della esperienza democristiana.

Tuttavia commetteremmo un gravissimo errore se pensassimo che in Italia è esistita una questione democristiana, o successivamente una questione berlusconiana. Nossignori, in Italia è esistita una questione comunista che ha condizionato la politica italiana stabilmente, determinando una strutturazione delle forze politiche in funzione della presenza del più forte partito comunista del mondo occidentale.

Per carità, lo stesso Pci merita una riabilitazione postuma: il suo contributo alla Costituzione fu grandioso; la collaborazione di Togliatti, persino nel giorno del suo attentato, contribuì alla saldezza del sistema democratico; negli anni del terrorismo il Pci fu in prima linea a difesa delle istituzioni. Tutto questo però non diminuisce di un’oncia il rischio di una eventuale vittoria, al tempo, del fronte popolare e successivamente del Pci.

La vera questione della Repubblica italiana è la questione comunista: essa ha generato la Dc, e l’ha modellata come l’abbiamo conosciuta. Finita la Dc, il sentimento anticomunista del Paese profondo ha aperto la via al berlusconismo.
E – se la vogliamo dire tutta – il declino elettorale di Forza Italia inizia quando Berlusconi sceglie la linea della collaborazione col Pd, che l’elettorato anticomunista considera come la prosecuzione del Pci (che ciò sia vero o falso, conta poco).

Berlusconi ha scontato una regola che la Dc conosceva bene: più ti avvicini alla sinistra, più perdi voti; la fine del governo Andreotti di solidarietà nazionale avvenne a causa di sondaggi che registravano una verticale caduta di consenso della Democrazia Cristiana.

Più recentemente Forza Italia ha pagato la collaborazione col Pd con una emorragia di voti a favore di Salvini; quando quest’ultimo si è imbarcato nel governo Draghi assieme al Pd, il blocco elettorale anticomunista si è spostato su Meloni.

Giorgia Meloni non farà l’errore di separarsi dal suo elettorato: oltre il suo governo, per Fratelli d’Italia ci sono solo le elezioni o il ritorno sui banchi dell’opposizione. Questo significa che Giorgia Meloni prenota un presidio stabile dell’area moderata, e del resto i numeri già dicono che il suo movimento non è riconducibile alla sola matrice della destra, che in Italia storicamente raccoglieva dal tre al quattordici per cento, non certo il trenta.

I trenta italiani su cento che votano Meloni sono ancora loro, i nipoti e pronipoti di quelli che nel 1948 votarono Dc, e pochi di loro avevano letto il codice di Camaldoli.

Ecco perché ho più volte scritto che solo Giorgia Meloni può costruire qualcosa di assimilabile alla Dc: il partito cattolico fu una forza di massa, e l’ispirazione cristiana diede un’anima democratica e sociale a una moltitudine a cui bastava opporsi vittoriosamente al comunismo.

Oggi non avanzano pericoli comunisti, ma il sentimento degli italiani rimane di forte avversione per il Pd. Per come conosco Giorgia Meloni, non penso che si contenterà di godere di questa rendita di posizione. Ne può fare, e penso che ne farà, il punto di partenza di una ristrutturazione del sistema politico italiano in senso bipolare, e in tal caso il modello democristiano tornerà buono per organizzare una forza stabilmente vincente rispetto alla sinistra italiana.


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