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C’era una volta la Dc, che giocava come la nazionale di calcio. L’opinione di De Tomaso

Amarcord trent’anni dopo: lo scudo crociato fu assai efficace nel gioco di rimessa, adattando le sue
politiche agli schemi degli avversari. Il bilancio: bicchiere mezzo pieno. L’opinione di Giuseppe De Tomaso

Se il grande Gianni Brera (1919-1992) avesse fatto l’analista politico, anziché il sublime narratore di calcio, avrebbe incollato alla Democrazia Cristiana l’etichetta di “squadra femmina” da lui spesso appiccicata alla nazionale pallonara azzurra. La “squadra femmina”, nell’accezione breriana, era quella formazione che non imponeva mai il proprio gioco, era quella che prediligeva la strategia di rimessa e che andava in gol soprattutto quando gli avversari brillavano per vigore e intraprendenza. In effetti, grazie a questa machiavellica disposizione in campo, l’Italia del calcio ha collezionato in bacheca una lunga fila di lusinghieri e cospicui trofei. Ma, per gli eterni insoddisfatti, era ed è vero anche il contrario: a loro avviso, per colpa di una programmazione di gioco callida e sparagnina, la Nazionale pedatoria ha lasciato sul prato parecchi allori che erano alla sua portata. Chi aveva, chi ha ragione, visto che tuttora, il mondo del calcio, soprattutto da noi, si divide, animosamente, tra offensivisti e difensivisti, roba che, al confronto, il bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra somiglia a una pacata conversazione serale tra gruppi di rotariani?

Idem per la Dc, eclissatasi giusto 30 anni fa dal proscenio parlamentare (non politico). Per i suoi nostalgici, la Dc andrebbe ricordata e ringraziata notte e giorno: senza di lei, l’Italia avrebbe rischiato grosso, i comunisti avrebbero preso il potere, il miracolo economico sarebbe rimasto un miraggio, lo scontro di classe avrebbe toccato in anticipo temperature da surriscaldamento terrestre, con buona pace di tutti gli inviti alla concordia da parte del Pontefice di turno. Per i suoi detrattori, invece, la Dc meriterebbe un processo postumo: per colpa sua, sarebbe svanito il già debole senso dello Stato, è aumentata la corruzione, è volato il debito pubblico, si è quasi bloccata la crescita economica. Per i primi, l’Italia oggi si ritroverebbe messa peggio se non ci fosse stata la Dc. Per i secondi, l’Italia vivrebbe meglio senza l’azione e il lascito della Dc. Chissà se gli storici prossimi venturi riusciranno mai a convergere su un giudizio comune a proposito della Prima Repubblica segnata dalla stagione del bianco fiore. Prospettiva assai difficile, vuoi perché i pregiudizi ideologici degli studiosi sono più tenaci del granito vuoi perché la stessa Dc era più proteiforme di Proteo, personaggio della mitologia greca assai bravo ad assumere tutte le sembianze. Non a caso Mario Missiroli (1886-1974), sapido direttore del Corriere della Sera (1952-1961), era solito ripetere che la Dc era una confederazione che comprendeva l’intera rappresentanza politica, essendo le sue correnti nient’altro che partiti concorrenti, ora alleati ora rivali, ma denominati in altro modo. Il che costituiva il suo limite, ma anche la sua forza, la sua carta vincente.

Diciamolo. Bicchiere mezzo pieno il consuntivo dell’era democristiana. Per varie ragioni. Dicono che se pure, il 18 aprile 1948, il fronte socialcomunista avesse vinto nell’urna, Josif Stalin (1878-1953) avrebbe fermato l’ascesa di Palmiro Togliatti (1893-1964) al governo per non infrangere le intese di Jalta con gli americani e gli inglesi. Dicono. Ma non esiste la prova contraria. Comunque la Dc di Alcide De Gasperi (1881-1954) evitò la materia del contendere trionfando in cabina elettorale e piazzando la Penisola sotto l’ombrello atlantico. Il che salvò il Belpaese e forse lo stesso Togliatti (informarsi sulla tragica sorte, in quegli anni, di altri leader comunisti internazionali più meno autonomi).

Altra ragione. Dicono che la Dc assecondò l’interventismo di Stato che a sua volta alimentò il tangentismo di parastato. Può essere. Ma il primo decennio di guida dc, nonostante gli allarmi di Luigi Sturzo (1871-1959), fu caratterizzato da una politica sostanzialmente liberoscambista, einaudiana. Certo, imperversava l’Eni di Enrico Mattei (1906-1962), ma il suo protagonismo giovò assai all’economia dello Stivale. E anche quando, con il centrosinistra, prevalse l’anima dossettiana della Balena Bianca, quella (anti-degasperiana) che diffidava del mercato e confidava nella mano pubblica, i titolari dc di Palazzo Chigi, fatta eccezione per il dirigista Amintore Fanfani (1908-1999), adoperarono spesso e volentieri il freno per evitare che alcune riforme di struttura rendessero la spesa pubblica una variabile indipendente e del tutto fuori controllo. E che dire, per restare in tema, del divorzio (1981) tra Banca d’Italia e Tesoro, voluto ostinatamente dal valoroso dc Nino Andreatta (1928-2007)? Fu una svolta straordinaria nella storia economica della nazione perché esonerava la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare le obbligazioni che il governo non riusciva a vendere sul mercato, il che accresceva il disavanzo pubblico, allargava la massa monetaria e eccitava l’inflazione. Forse manco Margaret Thatcher (1925-2013) avrebbe avuto il coraggio, se fosse vissuta in Italia, di proporre e ottenere qualcosa di simile.

Altra ragione. Dicono che con la Dc, nonostante tutto, nonostante gli Andreatta (“Un’eccezione”), il debito pubblico non venne mai combattuto efficacemente; che, invece, proliferarono il capitalismo di Stato e il socialismo municipale; e che Mani Pulite fu la logica conclusione di una gestione corrotta, clientelare, lottizzata dell’economia. C’è del vero in questa tesi, ma bisogna pure riconoscere che lo scudo crociato dovette affrontare la concorrenza del più robusto partito comunista d’Occidente; che la spesa pubblica costituiva il primo mezzo per acquisire un consenso elettorale che, viceversa, in caso di politiche economiche dettate da logiche di rigore, si sarebbe indirizzato verso i banchi dell’opposizione di sinistra. Non a caso il Sistema esplode dopo la caduta del Muro di Berlino, quando viene meno la necessità di sostenere grazie alla spesa pubblica, e alle relative degenerazioni collaterali, il blocco di governo messo assieme dalla Dc. Anche il passaggio dal modello elettorale proporzionale al modello maggioritario è frutto del crollo del Muro. Col Muro ancora eretto, nessuno, tra i moderati centristi, avrebbe avuto l’ardire, in Italia, di rischiare di affidare, varando nuove regole del gioco (maggioritarie), il timone della nave a una coalizione socialcomunista, collegata non solo culturalmente alla nomenklatura sovietica.

E tuttavia la fine del potere temporale Dc non significò né, forse, significherà mai la fine dei democristiani di governo, la cui presenza nelle istituzioni non ha mai patito quarantene o battute d’arresto: lo dimostra la carta d’identità dell’attuale presidente della Repubblica. Non si sarebbe potuto dire altrettanto se il bilancio della Prima Repubblica in formato dc fosse stato associato a un bicchiere mezzo vuoto.

Allora. Davvero Squadra femmina la Dc, come l’avrebbe classificata il criterio pallonaro di Brera? Sì, perché, come per la nazionale di calcio e per la tv, anche per la politica il gioco di adattamento alle caratteristiche degli sfidanti era, e forse rimane, l’unico contropalinsesto in grado di produrre risultati.

 

 

 


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