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Requiem per Ingravallo. Un racconto di Giuseppe Fiori

Di Giuseppe Fiori

Pubblichiamo il racconto “Requiem per Ingravallo” dello scrittore e giallista Giuseppe Fiori, con la prefazione di Eusebio Ciccotti, uscito sul n. 336 de l’immaginazione (Manni Editore). Un’opera che prende spunto dal mistero irrisolto narrato in “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”, di Carlo Emilio Gadda, di cui ricorre quest’anno il cinquantenario dalla morte

Quest’anno è il cinquantenario della morte di Carlo Emilio Gadda (1893-1973). Il grande scrittore milanese, trapiantato a Roma, autore di racconti e romanzi, è conosciuto per il famoso Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957). I lettori che non avranno avuto la pazienza di leggere il denso e plurilingue romanzo, forse si saranno imbattuti nell’altrettanto noto film di Piero Germi (che qui si ritaglia anche la parte del commissario Ingravallo), Un maledetto imbroglio (1959). Per chi amasse una lettura comparata, avantesto letterario/testo filmico, rimandiamo al prezioso Quer pasticciaccio de via Merualna/Un maledetto imbroglio di Mara Santi, 2017, Claudio Grenzi Editore, Foggia.

Il racconto Requiem per Ingravallo dello scrittore e giallista Giuseppe Fiori, uscito sul n. 336 de l’immaginazione (Manni Editore), prende spunto proprio dal mistero irrisolto nel romanzo di Carlo Emilio Gadda: la ricerca del colpevole del femminicidio. Si ringrazia per gentile concessione dell’Editore. (E.C.)

Il racconto

Alla fine aveva deciso di mantenere, a modo suo, la promessa che aveva fatto a Uberto. Dopo molte insistenze e qualche bicchiere di gin il commissario di polizia fluviale Omar Martini si era arreso all’amico, disegnatore e sceneggiatore di fumetti: lo avrebbe aiutato a rendere Quer pasticciaccio brutto de via Merulana una graphic novel di sicuro successo. L’aiuto doveva consistere, secondo le indicazioni di Uberto, nello scoprire l’assassino di Liliana Balducci, la donna uccisa nell’appartamento del famoso palazzo di via Merulana, portando a compimento le indagini di polizia presenti nel romanzo.

All’inizio a Martini l’idea aveva fatto orrore: «Come puoi proporlo a me, che sono entrato in polizia proprio per la suggestione esercitata dal modus indagandi di Ingravallo?» gli aveva chiesto occultando la vena ironica della domanda.

Uberto sosteneva che non era necessaria una fedeltà assoluta alla storia e che l’idea di concludere l’indagine con la scoperta dell’assassino avrebbe reso giustizia al romanzo.

«Basta!» era esploso Martini, rovesciando il bicchiere di gin sull’iPad con sullo schermo il volto di Ingravallo, che somigliava vagamente a Pietro Germi.

Uberto aveva tirato fuori da una sacca il libro e l’aveva posato sul tavolino vicino alla bottiglia di gin. «Ti ho segnato i punti dove secondo me può esserci il colpo di scena di Ingravallo che smaschera l’assassino della bella e sfortunata signora Balducci».

«Pure!»

Martini prese il libro e guardò la copertina. Era una delle prime edizioni, che aveva anche lui, con la straordinaria illustrazione di Fulvio Bianconi: una festa di colori attorniava il Palazzo dell’oro di via Merulana, con bandiere e carabinieri, e i condomini affacciati alle finestre nei loro abiti sgargianti. «Poi», aggiunse l’amico fumettista per vincere le ultime resistenze, «non ergerti troppo a cultore dell’omissione gaddiana, sai bene quanto me che esistono trenta o quaranta pagine che Gadda aveva scritto per un fantomatico secondo volume in cui l’assassino sarebbe stato svelato, anche se non sono mai state ritrovate».

«E il fatto che non siano mai state pubblicate non ti dice niente?» replicò il commissario alzandosi.

Uberto lo guardò: «Se il tuo nome comparisse in copertina come co-sceneggiatore?»

«Ti denuncerei immediatamente per falso».

Nel commissariato di polizia fluviale l’ispettore Giustoleo aveva fatto buona parte della carriera in Questura, era quindi l’unico a cui Martini poteva chiedere di fare da tramite con l’anziana archivista dell’Archivio Deposito.

«L’hanno ormai chiuso» gli aveva risposto Giustoleo, «hanno iniziato una lenta e misteriosa digitalizzazione dei fascicoli, un’operazione che non avrà mai termine, temo».

«Ma è rimasta a presidiare il sito una sua vecchia amica».

«Sì, la tengono lì perché è prossima alla pensione… Con lei andrà in pensione l’archivio con tutti i fascicoli, digitalizzati o meno».

In effetti un tramite serviva perché Martini non doveva, in quella miniera semiabbandonata, ritrovare uno o più fascicoli per un’indagine di polizia in corso, e neanche Giustoleo aveva capito bene che ci andava a fare. Comunque telefonò alla sua collega archivista raccomandandole di prestare al commissario, in via ufficiosa, l’aiuto possibile.

Di buon mattino, dopo aver sistemato il romanzo di Gadda nel portapacchi posteriore, Martini risalì con la sua bici da piazza Venezia verso via Nazionale e arrivò a San Vitale, al palazzo della Questura.

L’archivista era una donna magra e con borse scure sotto gli occhi, viveva nei sotterranei del palazzo dove l’Archivio Deposito aveva trovato una sistemazione tombale. Indossava la tuta bianca e celeste della polizia e i capelli grigi erano raccolti sulla nuca in una crocchia con uno spillone a forma di matita.

«Buongiorno commissario, l’ispettore Giustoleo non è stato del tutto chiaro su come posso esserle utile…»

«Chiedo scusa per il disturbo, ma come le avrà accennato il collega sono qui per un motivo del tutto personale».

S’inoltrarono per un lungo corridoio scuro, ai cui lati si intravedevano schedari e tombarelli metallici di varia grandezza, finché arrivarono in un grande spiazzo quadrato con le pareti ricoperte di scaffalature di legno dove erano stipati, uno accanto all’altro, faldoni grigio piombo. Un tavolo troneggiava al centro, con due sedie.

«Ci sono altri tre locali di uguale ampiezza nell’altra ala del sotterraneo» precisò l’archivista «ma potremmo cominciare da qui».

«Avrei bisogno del fascicolo di un’indagine su un delitto in un appartamento romano presumibilmente avvenuto alla fine degli anni Trenta, la vittima era una donna bella, e coniugata» fece una pausa guardandosi intorno. «Se non trova niente di simile in quel periodo potrebbe allungare la ricerca agli anni Cinquanta, non oltre».

L’archivista si sedette e indicò il romanzo di Gadda: «L’ho letto anch’io, tanto tempo fa, e mi ha lasciato l’amaro in bocca… Le confesso che, nei lunghi anni del mio lavoro nel ventre della Questura, ho trovato il tempo di leggere molti romanzi, soprattutto del Novecento italiano».

«Mi fa piacere e, confessione per confessione, debbo dirle che la ricerca dentro quei faldoni riguarda proprio questo romanzo» e poggiò il block notes accanto al libro.

«Ho capito, lei vuole rintracciare il fatto di cronaca nera che può aver ispirato a Gadda la storia del romanzo e…»

«No» la interruppe Martini «vorrei soltanto trovare un fattaccio che abbia caratteristiche molto simili a quelle del romanzo, un fattaccio avvenuto negli anni Trenta, l’epoca in cui è ambientata la storia, o anche dopo, quando Gadda l’ha scritta».

L’archivista si alzò. «Comincio consultando i registri, ma posso chiederle, commissario, perché ha questa necessità?»

Omar Martini la guardò: quelle borse sotto gli occhi erano tracce del tempo passato a scrutare fascicoli, a compilare schede e registri, a vivere in tuta tra la polvere grigia delle carte. E decise di dire la verità.

«Un mio amico vuole che io trovi il colpevole dell’assassinio di Liliana Balducci, perché solo chiedendo il finale a un commissario di polizia la sua graphic novel potrà essere più aderente alla realtà. Almeno, questo è quello che pensa».

«E lei cosa pensa?»

«Non sono affatto convinto che la scoperta del colpevole avvicini il romanzo alla realtà e, soprattutto, se dovesse avvenire credo che sarebbe un danno irreparabile».

Purtroppo nessuno dei punti indicati da Uberto era adatto a sviluppare l’esito delle indagini del commissario Ciccio Ingravallo, e nessun investigatore avrebbe comunque tratto da quegli elementi una possibile soluzione dell’enigma.

Omar era rassegnato e continuava a sfogliare il Pasticciaccio alla ricerca del garbuglio giusto nella trama dove inserire uno svolgimento risolutivo. Se fosse riuscito semplicemente a dipanare la matassa avrebbe risolto senza sforzo il suo problema e, forse, non avrebbe violentato il testo, ma Gadda era Gadda e per la riuscita dell’operazione era necessaria una protesi tratta direttamente dalla realtà.

Era passato mezzogiorno e la palude dell’Archivio Deposito sembrava aver risucchiato l’anziana donna, quando all’improvviso ricomparve reggendo un corposo fascicolo grigio sormontato da uno smilzo fascicolo azzurrino.

«Sono stata fortunata, grazie alle rubriche annuali ho potuto isolare vecchie indagini con i connotati più o meno giusti, fino a quando» fece una pausa per posare i fascicoli sul tavolo e sedersi «fino a quando non ho trovato il tesoro» e batté la mano sul fascicolo grigio.

Martini la guardava affascinato: ora aveva i capelli sciolti sulle spalle e sembrava che le borse sotto gli occhi si fossero schiarite.

Aprì il fascicolo nel punto in cui aveva infilato la matita-spillone: «Siamo a Roma nel 1958, in un appartamento della centrale via Cavour viene trovata una donna accoltellata».

«Chi scopre il corpo?»

«La portiera, che ha un doppione della chiave di casa; avvisa subito la Squadra Mobile e partono le indagini. Naturalmente limitate alla cerchia delle persone che frequentano la casa, quindi parenti e amici».

«E il marito, i figli?»

«Il marito» indicò una pagina «è in testa alla lista dei sospettati, la coppia non ha figli. Ma il giorno del brutale assassinio il marito non è a Roma».

Martini fece un sorriso stentato: «Posso vedere il fascicolo?»

L’archivista lo fece scivolare sul tavolo verso il commissario, che cominciò a sfogliarlo con mano esperta. Pagina dopo pagina.

«Sì, la situazione, almeno a prima vista, sembra del tutto simile all’indagine di don Ciccio».

«Il Capo della Mobile dell’epoca ebbe un’intuizione felice» commentò l’anziana «che gli derivò dalla lettura della sua amata Agatha Christie…»

«I poliziotti notoriamente non leggono i gialli» obiettò Martini.

«Lui sì, quelli inglesi in particolare, e la sua anglofilia fu premiata qualche anno dopo, quando Scotland Yard, al termine di un’importante indagine svolta insieme, gli regalò una Zephir con cui saettava tra le vie di Roma».

«E la Christie come lo aveva ispirato?»

«Con una situazione abbastanza ricorrente: una coppia di complici alle cui spalle c’è un antefatto che arma loro la mano. Generalmente lui è il maggior sospettato e quindi deve avere un alibi inossidabile, mentre alla complice, insospettabile, spetta l’esecuzione materiale del crimine».

«Allora il capo della Mobile sospetta il marito?»

«Già. Tra chi frequentava l’appartamento c’è una giovane donna, Ines, una sorta di protetta che vive ai Castelli Romani e che interrompe la frequentazione per un certo periodo. Per poi riprenderla».
«È la maggiore sospettata?»

«No, lo è quanto tutti gli altri, ma incuriosisce quel periodo di assenza anche se giustificato da malattia, e allora il capo della Mobile fa indagare presso i vari ospedali dei Castelli, fino a quando non trova traccia del suo ricovero».

«Per partorire!» Martini sventolò un certificato di nascita estratto dal fascicolo. «Un antefatto vero e proprio. Ma come arrivò a sospettare del marito della donna assassinata?»

«I vicini di casa di Ines lo avevano visto più spesso e, a quel punto, il sospetto che fosse il padre del neonato prese corpo».

Martini continuò a sfogliare il fascicolo avendo messo di traverso il certificato: «Da qui in poi la coppia diabolica elabora il piano criminoso: il marito non può uccidere la moglie, deve, anzi, costruirsi un alibi con testimoni attendibili per il giorno fatale, mentre per Ines sarà sufficiente non essere riconosciuta nei pressi del palazzo di via Cavour nel giorno del delitto».

«Le motivazioni della giovane madre sono forti: con il suo gesto legherà per sempre il suo amante e complice alla nuova famiglia. Core de mamma, pensa solo al futuro del figlio» aggiunse amaramente l’archivista.

«L’uomo organizza un uxoricidio per procura, il divorzio in Italia sarebbe arrivato molto più tardi». Il commissario chiuse il fascicolo e guardò con gratitudine la donna: «Direi che grazie a lei ho trovato l’angolo azimutale, di gaddiana memoria, per puntare dritto al bersaglio».

Guardò l’orologio, raccolse dal tavolo il romanzo di Gadda e il block notes e si alzò: «La giovane e crudele complice dovrò individuarla in una delle così dette “nipoti” che frequentavano casa Balducci per il piacere della bella e solitaria Liliana».

L’archivista, con un lieve imbarazzo, spinse verso di lui il fascicolo azzurro: «Le ho detto, commissario, che in questi lunghi anni di servizio mi hanno fatto compagnia i romanzi, e così appena ne finivo uno…»

«Faceva una scheda» la interruppe Martini.

«No, raccoglievo per lo più recensioni e articoli, insomma facevo un fascicolo. E questo è quello su Gadda e il Pasticciaccio». Lo aprì e prese tre articoli: «Sono di Pietro Citati, suo amico e grande estimatore».

Martini li guardò velocemente.

«Quest’ultimo dovrebbe proprio leggerlo, prima d’andar via, commissario».

La donna aveva assunto un atteggiamento di complicità e Martini l’aveva notato, si risedette e s’immerse nella lettura delle pagine di «Repubblica» del 6 settembre 1996, rimpiangendo di aver smesso di fumare.

In lontananza si sentiva squittire debolmente, almeno un topino doveva aver trovato dimora in quel labirinto buio.

Martini non staccava gli occhi dal giornale. E a un certo punto alla donna sembrò che sussurrasse “non posso, non posso” scuotendo appena la testa.

Poi lo vide riporre i fogli nel fascicolo azzurro.

L’archivista lettrice recitò a memoria una frase dell’articolo: «La realtà formicola. Gadda fissa attentamente il suo occhio avido sopra di lei, dimenticando di dover scrivere un romanzo e di macchinare un intreccio…»

Martini poggiò ancora il libro con la sua copertina squillante sul tavolo, accanto ai due fascicoli e al computer: «Nel Pasticciaccio la realtà assume una densità e uno spessore impareggiabili attraverso il linguaggio, questo l’ho sempre saputo e sentivo di non dover intervenire per non offuscare la meraviglia della realtà immaginata e messa in scena».

L’archivista accostò il libro al fascicolo grigio: «Realismo e finzione vivono in simbiosi e non in opposizione, perché il primato della realtà non è assoluto, ma ha bisogno di essere reinventato, rappresentato e, spesso, riversato in una storia la cui trama ci rende partecipi di infinite combinazioni di senso».

Martini guardò di nuovo l’orologio, si era fatto tardi, si rialzò: «È per questo che non posso ora contaminare le scene della realtà immaginata nel Pasticciaccio», riprese il libro sorridendo. «Neanche Ingravallo, l’investigatore ubiquo ai casi e onnipresente sugli affari tenebrosi, ha potuto chiudere il cerchio di un’indagine poligonare come quella sull’omicidio di Liliana Balducci».

Si era infilato gli auricolari e pedalava lungo la discesa di via Nazionale sulla corsia gialla dei bus.

«Omar, ti disturbo, hai da fare?»

«Sto tornando al commissariato, fatti trovare lì Uberto».

«Ci sono novità?»

Appena in tempo vide l’autobus che lo stava stringendo al marciapiede, all’altezza di una fermata.

«Sì, ti devo spiegare perché non posso trovare il colpevole del fattaccio di via Merulana. Sono certo che capirai».

 

 

 



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