Per porre rimedio a questa stortura e attirare giovani competenti e entusiasti, per costringere il sistema ad adottare criteri realmente meritocratici che favoriscano la carriera dei migliori, è necessario, a mio parere, invertire il precariato nel ruolo. Si crei un ruolo stabile e unico di ricercatore universitario a tempo indeterminato e si renda precario il ruolo di professore ordinario. L’opinione di Cesare Greco, professore associato di Cardiologia all’Università La Sapienza
Una zampa di volpe in una busta accompagnata da neanche tanto velate minacce. Un’intimidazione in perfetto stile mafioso, e non per una gara d’appalto a Corleone o a San Luca, ma per un concorso a cattedra di Diritto Costituzionale nel più antico Ateneo del mondo occidentale, l’Alma Mater di Bologna.
Da anni, ormai, si susseguono gli scandali per concorsi universitari truccati per favorire allievi scarsamente capaci, parenti, amici, amanti. Da anni candidati per questi concorsi denunciano intimidazioni, minacce sulla carriera, brogli, favoritismi indecenti. Da anni i tribunali amministrativi annullano concorsi universitari di cui spesso sono interessate anche le procure della repubblica. Da anni le università italiane sono fuori dai gradini più alti delle classifiche internazionali. La settima potenza industriale del mondo, la terza economia dell’Unione Europea, si entusiasma se i suoi Atenei riescono a rientrare, non tra i primi dieci o venti del mondo, ma tra i primi cento. Vi sono certamente eccezioni particolari, ma queste riguardano singoli corsi di studio, come la magnifica performance della Sapienza, prima al mondo limitatamente agli studi classici. I punteggi complessivi, però, sono a dir poco umilianti, soprattutto se rapportati alla storia che i nostri Atenei possono vantare nello sviluppo della cultura occidentale nell’antichità.
Ad ogni scandalo, ad ogni intervento dell’autorità giudiziaria o dei tribunali amministrativi, si assiste, parafrasando De Andrè, ad un coro di costernazione, indignazione, impegni. Poi, evidentemente si getta la spugna, e senza neanche gran dignità, se nulla cambia, se neanche le conseguenze penali possibili riescono a modificare un malcostume ben radicato nei più oscuri recessi in cui si decidono certe carriere universitarie. Si auspica meritocrazia, si chiede di fermare la fuga di cervelli che, penalizzati in patria, finiscono per contribuire alle ottime performance delle grandi università di altri paesi, ma nulla si fa per raggiungere questi obiettivi, per costringere il sistema a favorire i meritevoli e scaricare la zavorra. Anzi, l’attuale sistema di reclutamento sembra fatto apposta per scoraggiare i più bravi, ma privi di padrini, e favorire chi questi padrini ce li ha a prescindere dai meriti.
Un giovane che volesse tentare la carriera universitaria deve prepararsi ad anni di sacrifici e precariato senza nessuna certezza di proseguire poi nel percorso scelto. Una volta conseguita la laurea e l’eventuale specializzazione, infatti, dopo avere accumulato i titoli necessari per partecipare al primo concorso, come il dottorato di ricerca che ha una durata triennale, viene inquadrato nel ruolo di ricercatore di tipo A, di durata triennale e prorogabile per altri due anni. Successivamente, può sperare di ottenere un contratto da ricercatore di tipo B, triennale non rinnovabile da cui, se si è superata l’abilitazione scientifica nazionale, è possibile transitare nel ruolo di professore associato a tempo indeterminato, previa accettazione del Dipartimento di afferenza. Il risultato è che, in assenza di garanzie, molti giovani preparati rinunciano a priori ad imbarcarsi in una avventura dall’esito incerto e che rischia dopo un minimo sei anni fino a tredici dalla laurea, di lasciarli senza nulla di stabile ad un’età nella quale è più difficile l’accesso ad altri ambiti lavorativi.
Per porre rimedio a questa stortura e attirare giovani competenti e entusiasti, per costringere il sistema ad adottare criteri realmente meritocratici che favoriscano la carriera dei migliori, è necessario, a mio parere, invertire il precariato nel ruolo. Si crei un ruolo stabile e unico di ricercatore universitario a tempo indeterminato e si renda precario il ruolo di professore ordinario. Solo facendo dipendere la permanenza nel ruolo di professore ordinario dalla capacità didattica e di direzione scientifica del proprio gruppo di ricerca, si può sperare di ottenere una maggiore attenzione nella scelta dei collaboratori più meritevoli. Un professore la cui permanenza in ruolo dipenda dalle capacità dei propri collaboratori, avrà tutto l’interesse a circondarsi dei migliori. La permanenza in ruolo, dunque, dovrebbe dipendere da una verifica triennale, o comunque non oltre il quinquennio, di quanto prodotto. In caso di non superamento della verifica, nulla osta che il professore scadente torni a ricoprire il precedente ruolo di ricercatore. Occorre, in sostanza, creare un conflitto di interessi col sistema delle raccomandazioni e una convergenza di interessi con il merito.