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La Nato può fare di più. Il punto del generale Tricarico su Vilnius

La ricerca di un coinvolgimento per la fine della guerra in Ucraina, i negoziati con Erdogan e le mancate attenzioni concrete della Nato al fianco sud, impongono una riflessione sul summit alleato di Vilnius. Le posizioni del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica

La soddisfazione e l’ottimismo con cui il summit di Vilnius è stato consegnato alla cronaca (qualcuno ha detto alla Storia) paiono francamente eccessivi e in parte fuori luogo, se si valuta la questione da una prospettiva meno condizionata dagli eventi in corso nel centro Europa che -ricordiamolo – dovrebbero riguardare solo in maniera marginale l’Alleanza.

Semmai la Nato è parsa aver smarrito, oltre al senso della sua missione, anche quello della sua identità. Con Vilnius in altre parole essa è parsa stabilmente incamminata verso un mutamento genetico le cui prime avvisaglie erano ormai evidenti ed inequivocabili.

Come valutare altrimenti il fatto che, scorrendo il lungo comunicato finale, non si ravvisi il pur minimo accenno alla necessità di fermare, con un negoziato, il conflitto russo-ucraino, di “impegnarsi, come stabilito dallo Statuto delle Nazioni unite a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte”?

Questo impone la principale ragion d’essere dell’Alleanza, quella fissata in tutta la sua ineludibilità nell’Art. 1 del patto sottoscritto nel 1949. Invece il tema è stato solo sfiorato, anzi eluso, come lascia intendere il punto 9 del comunicato finale laddove si afferma, senza che se ne dia l’evidenza (e tantomeno la prova) che “mentre noi abbiamo sollecitato la Russia ad avviare un negoziato credibile con l’Ucraina, essa non ha mostrato alcuna genuina apertura per una pace giusta e duratura”.

Altra questione, tutt’altro che onorevole, i cui contorni sono ancora incerti, quella del prezzo pagato alla Turchia per il suo assenso all’ingresso della Svezia nell’alleanza.

Ciò che rimane ancora nebuloso è se il presidente turco intenda ancora mantenere la perentorietà del primo momento, ben esplicitata nel Memorandum siglato a fine giugno a Madrid con Svezia e Finlandia, nel richiedere l’estradizione di cittadini turchi, bollati come terroristi da Erdogan ma con tutta probabilità e in larga parte, soggetti dissidenti riparati all’estero, dello stesso tipo tanto per intenderci, di quelli gettati in carcere in Turchia, senza risparmio e senza riguardo, negli ultimi anni.

O se invece, come è parso di capire, la Turchia sarebbe disposta ad accontentarsi della generica rassicurazione della Svezia affinché venga esercitato un controllo più accurato sui comportamenti dei cittadini turchi in territorio svedese.

E anche qui, come valutare se non come bieco il comportamento di una Alleanza, fondata su democrazia, libertà e rispetto dei diritti, quando accetta una clausola liberticida pretesa da un Paese membro e chiude ambedue gli occhi di fronte alla consegna nelle mani di un tiranno di cittadini colpevoli solo di esercitare la libertà di pensiero?

Un terzo punto infine dovrebbe dissuadere, anche e soprattutto noi italiani, dal cantare vittoria al rientro da Vilnius.

Il presumibile e ampiamente previsto mantenimento di una attenzione isterica, e ora maggiormente immotivata, al fianco est dell’Alleanza declasserà ulteriormente la priorità, a lungo rivendicata, di un occhio più attento a ciò che da anni succede dalle nostre parti, nel continente africano e in medio oriente.

Sembra che non si sia considerato che la Russia, per tempi piuttosto lunghi, non costituirà minaccia militare per alcuno e tantomeno per la Nato, anche se Putin volesse insistere nelle sue mire imperiali.

Il suo esercito, ampiamente sopravalutato (anche dagli esperti), sottodimensionato nell’uso di sistemi ad alta tecnologia, sprovvisto di una dottrina di impiego moderna, logoro nel morale, nella leadership e nella disponibilità di mezzi ed armamento, morso senza pausa dalle sanzioni, dovrebbe far dormire sonni tranquilli all’Occidente per almeno i prossimi trenta anni, e solo nell’ipotesi che Putin avvii senza indugio un processo di ripensamento radicale e di riedificazione ex novo del suo strumento miliare.

Se così stanno le cose, perché continuare a partorire, nella migliore delle ipotesi, solo topolini in risposta alle legittime preoccupazioni dei Paesi del sud, e continuare a esorcizzare le comprensibili ma immotivate paure dei Paesi del nord?

Purtroppo, i rischi da sud non sono mai stati sufficientemente approfonditi a un tavolo di concertazione vera; nei comunicati finali dei vari summit, le considerazioni generiche sull’argomento ormai stucchevoli, vengono sistematicamente riciclate senza che si faccia una rassegna seria e complessiva del vasto e variegato panorama africano e mediorientale.

Qualcuno qui da noi è arrivato ad irridere Giorgia Meloni nell’assunto – falso – che il sud dell’Alleanza fosse stato da noi evocato solo in relazione alle migrazioni, ma così non è stato. Più di noi potrebbe argomentare la Francia, costretta a ritirarsi dal Mali dove si era imbarcata in una avventura azzardata senza che i suoi appelli a costruire insieme una forza militare degna di questo nome venisse raccolta da altri Paesi.

E il Mali in qualche maniera, con le dovuta differenze da altri Paesi africani, esprime il modello di una struttura statuale fragile, incapace di provvedere alla propria sicurezza avverso i pericoli di una criminalità dilagante, primo tra tutti il terrorismo mai sopito ma soggetto a una continua regolare espansione e radicamento.

Perché lasciare il Mali e altri in balia di chi, come Wagner ad esempio, o come Egitto, Turchia o altri, interpretano l’eventuale supporto alle istituzioni in pericolo solo in funzione del proprio tornaconto? Tornaconto raramente sovrapponibile allo sradicamento dei fenomeni criminali, talché il Paese assistito possa edificare in tutta sicurezza il proprio futuro.

Tra l’altro, oltre ai gruppi terroristici conosciuti, proprio negli ultimi dieci, quindici anni, quando il sentire comune percepiva come sonnolento il fenomeno criminale e la Nato ripeteva come un disco rotto le sue vaghe promesse, sono nati numerosi gruppi, tutti filiazione dei ceppi principali di Al Qaeda e Isis, che non hanno risparmiato nessun Paese africano, in maniera tanto più insidiosa quanto più fragile era la struttura statuale in cui insistevano.

Questo allora ci si aspetterebbe dalla Nato, che davvero volesse considerare il terrorismo nella sua reale dimensione ed insidiosità. E questo è uno dei motivi per cui alle preoccupazioni vere, non a quelle antirusse, ancora una volta a Vilnius non è stata in grado di dare risposta.

Ovviamente i novanta punti del comunicato finale del summit lituano fornirebbero altrettanti spunti di riflessione, soprattutto se si volesse mettere a punto in prospettiva una Strategic compass, magari destinata a maggiori fortune rispetto a quella elaborata dall’Unione europea. E tuttavia le tre questioni evocate forniscono, da sole e in maniera evidente, la percezione certa della necessità di un cambio radicale di passo atto a rafforzare la Nato, atto a far sì che la Nato resti o torni ad essere quello che è, uno strumento insostituibile per garantire pace, sicurezza e libertà.

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