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Una riforma proustiana dell’Irpef. L’opinione di Zoppini

Di Giancarlo Zoppini

Il disegno di legge-delega di riforma fiscale ha più di un punto molto ben promettente. C’è un tema, non direttamente regolato, ma soltanto ipotizzato prospetticamente, che pare più di altri interessante. È quello delle aliquote Irpef, considerato all’art. 5 del d.d.l. (“nella prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica”). Il commento di Giancarlo Zoppini

Nel saggio su Proust. I colori del Tempo, Eleonora Marangoni nota che l’unica voce del celebre questionario alla quale l’autore della Recherche non rispose mai è quella relativa alla “Riforma più apprezzata”. La scrittrice vede la ragione dell’omissione nel naturale snobismo dell’esteta verso la politica. Se così è, e non abbiamo motivi di dubitarne, allora la consolidata leggenda per la quale non facciamo mai riforme (“dobbiamo fare le riforme” è un noto mantra politico, il più delle volte declamato senza specificare di quali riforme si tratta) potrebbe essere un lascito inconsapevole delle nostre età auree.

Se non fosse una leggenda, però, non avremmo quel groviglio inestricabile di leggi e leggine che, anche grazie al sovrapporsi non sempre ordinato delle fonti, rende arduo distinguere il diritto dal rovescio e ci ha riportato ad una confusione simile a quella che regnava ai tempi del diritto comune, come nota Antonio Padoa Schioppa nel saggio sulla Storia del diritto in Europa. Naturalmente, la riforma semper reformanda è quella fiscale.

Anche oggi disponiamo di un nuovo testo allo stadio del disegno di legge-delega, recante, ad onor del vero, più di un punto molto ben promettente. C’è tuttavia un tema, non direttamente regolato, ma soltanto ipotizzato prospetticamente, che pare più di altri interessante. È quello delle aliquote Irpef, considerato all’art. 5 del d.d.l. (“nella prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica“).

Si sa che la destra punta all’aliquota unica, con sottostante, necessaria (a pena di incostituzionalità) declinazione di detrazioni automatiche, mentre la sinistra non ha mai dato segni concreti di volersi scostare dalla previsione di poche aliquote (oggi quattro) tra loro assai distanti. Due sistemi idonei a garantire in qualche modo la progressività. Il secondo ha un difetto: se, appunto, articolato in poche aliquote distanti tra loro, genera aggravi notevoli, dunque non proprio equi, in ragione del passaggio da uno scaglione di reddito all’altro. Anche il primo ha un difetto, ovvero una certa opacità: l’aliquota unica è soltanto nominale, dato il gioco sottostante delle detrazioni automatiche (nomina nuda tenemus) e può averne un altro, esattamente come il secondo: se la declinazione delle detrazioni avviene per pochi scaglioni di reddito e l’entità delle detrazioni varia sensibilmente, il passaggio da uno scaglione all’altro genera gli stessi aggravi iniqui (invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia).

Per evitare tali iniquità, c’è una via normale (già praticata in passato in un sistema simile a quello vigente): prevedere moltissimi scaglioni ai quali riferire aliquote (o le detrazioni, se si preferisce l’opaca aliquota unica) tra loro poco distanti. Tale soluzione, però, dovrebbe non piacere ai nominalisti della semplificazione. Che fare, dunque?

Guardiamo alla Germania. In sintesi, il sistema teutonico funziona così: si determina prima uno scaglione di reddito non tassabile; poi un secondo scaglione molto ampio e due aliquote, la più bassa si applica sul primo euro del secondo scaglione e la più alta sull’ultimo euro dello stesso scaglione; il supero, fino all’infinito, costituisce il terzo scaglione, sul quale si applica una terza aliquota, poco più alta della seconda. Nel secondo scaglione la tassazione varia in progressione continua, cioè senza salti, in base ad una formula matematica, con buona pace delle iniquità.

Come è facile intuire, il lieve salto di aliquota tra il secondo ed il terzo scaglione è necessario per consentire la continuità della tassazione progressiva nel secondo scaglione, che dovrebbe abbracciare la grandissima parte dei redditi. Ora, se i partiti convenissero che questo è il metodo di tassazione più equo, potrebbero altresì convenire di adottarlo in via permanente, riservandosi di variare aliquote e scaglioni in funzione delle loro dottrine di politica economica. Seguirebbe un vantaggio, vale a dire che le campagne elettorali potrebbero non nutrirsi più di sublime vaghezza, ma di indicazioni puntuali sull’entità dell’imposizione reddituale. Seguirebbe anche uno svantaggio, vale a dire che le campagne elettorali potrebbero non nutrirsi più di sublime vaghezza, ma di indicazioni puntuali sull’entità dell’imposizione reddituale.

Non è facile discernere tra tali vantaggi e svantaggi, salvo notare che il sistema teutonico risulta esteticamente migliore, dunque più gradito ai lettori di Proust, che però non sono moltissimi e non è detto che vadano tutti a votare.



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