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La “rivolta francese” può essere una miccia (anche) per altri Paesi. Scrive Zacchera

La sommossa delle banlieues deve portarci a una profonda riflessione sulle conseguenze indirette del fenomeno immigrazione. Si impone quindi anche una questione “europea” perché la politica delle frontiere aperte può creare – anche dopo molti anni – situazioni ingovernabili e molto pericolose per tutti

Le notizie francesi sulla “Rivolta dei giovanissimi” che da ormai una settimana scuote la Francia, in Italia vengono letti soprattutto come fatti di cronaca, ma si fanno pochi sforzi per approfondimento le motivazioni profonde di una situazione esplosiva che dovrebbe fare riflettere tutta l’Europa. Se il pretesto è stata l’uccisione di un giovane di 17 anni, pluri-pregiudicato, colpito da un poliziotto a un posto di blocco che aveva forzato, c’è sottostante una situazione insostenibile, a lungo tollerata ma anche nascosta a livello di opinione pubblica, soprattutto nel nostro Paese.

Non solo nella periferia parigina ma in tutta la Francia sta infatti crescendo una nuova generazione che non riesce (e non vuole) integrarsi nella comunità e che rifiuta l’omologazione culturale e sociale di un paese che sulla “egalité” aveva e ha scommesso il proprio futuro. Sono giovani francesi figli (e nipoti) dell’ondata migratoria che ha riempito la Francia, soprattutto dal Nordafrica e dalle ex colonie francesi, che proprio nella loro “diversità” trovano motivi di aggregazione rifiutando le strutture stesse di uno stato che considerano “nemico” perché non se ne sentono parte. Sono diventati “grandi numeri” che affrontano un disagio fatto di abbandono scolastico, larghe sacche di disoccupazione e difficoltà economiche, costituendo interi quartieri che sono diventati vere e proprie comunità alloctone, spesso in un ambiente visibilmente degradato.

Frutti antitetici agli obiettivi di una politica francese che da anni come scelta strategica aveva voluto invece cancellare, almeno ufficialmente, proprio tutte le diversità etniche, culturali, sociali e religiose. Siamo arrivati al paradosso che in alcuni quartieri (o “case-quartiere” visto gli enormi agglomerati residenziali di periferia) non entri e non vivi se non sei originario di un determinato paese africano, ma poi è vietato indicare in un curriculum la tua etnia di provenienza o una scelta religiosa.

Appare assolutamente ipocrita non voler riconoscere la realtà di questo fallimento quando – soprattutto nel mondo musulmano – sono invece proprio queste le caratteristiche più importanti e che vengono sublimate soprattutto da chi non ha altri motivi di integrazione. L’orgoglio di origine razziale di appartenenza sembra diventato l’elemento fondamentale di identità di questi giovani francesi che a migliaia – da ormai diversi giorni – tengono in scacco governo e polizia, in un moltiplicarsi di incidenti, provocazioni, incendi.

Non c’entra nulla la morte del giovane Nahel con l’assalto a un municipio o con il saccheggio di un negozio alla moda, ma è la “vendetta” generata da una rabbia profonda ed iconoclasta non per l’episodio in sé, ma di rabbia razziale contro i simboli del potere e della ricchezza negata.

Macron è in forte difficoltà: senza una maggioranza parlamentare stabile, stretto da una estrema destra che gli chiede più rigore e condizionato da una sinistra che lo attacca, oscilla tra appelli e pressioni opposte, mentre ormai non solo le periferie bruciano per una rivolta che si estende e può diventare incontrollabile, con un pericoloso spirito emulativo e dove il rischio di infiltrazione terroristico-religioso è evidente, a rischio di ulteriore degenerazione. Sull’altro fronte si moltiplicano anche i gruppi di “autodifesa” spesso armati e ufficialmente coperti da associazioni di tiro a segno.

Certo fa effetto prendere atto che nel mirino ci sia proprio il ministro dell’interno Darmanin – potenziale successore di Macron e molto pieno di sé – che solo due mesi fa attaccava Meloni sulle politiche migratorie italiane e che ora appare manifestamente incapace di controllare la propria situazione interna.

Così come appare surreale che l’Onu sostenga come proprio in Francia la polizia attuerebbe discriminazioni etniche (quando la “gendarmerie” è un evidente esempio interraziale) e le stesse Nazioni Unite non muovono ciglia per gli attacchi in tutta l’Africa di carattere religioso contro i cristiani o intervengono su paesi che praticano abitualmente la pena di morte o la discriminazione femminile. Solo nella stessa Francia in un anno ci sono stati una ventina di attentate a chiese e oltre 800 episodi di violenza anti-cristiana, notizie più o meno tenute sotto traccia per non alimentare le contrapposizioni.

Attenti però alla rivolta francese, perché potrebbe essere una miccia per analoghe situazioni anche in altri paesi europei (si pensi al Belgio) ma che deve portarci ad una profonda riflessione sulle conseguenze indirette del fenomeno immigrazione. Si impone quindi anche una riflessione “europea” perché la politica delle frontiere “aperte” può creare – anche dopo molti anni – situazioni ingovernabili e molto pericolose per tutti.

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