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Salario minimo, Renzi ha ragione. Il punto di Giorgio Merlo

Al di là delle diverse interpretazioni che ogni partito persegue in modo più o meno strumentale,  basta scorrere le dichiarazioni dei vari leader di sinistra per rendersi conto che le singole posizioni sono e restano profondamente diverse tra di loro. Come, del resto, nel campo sindacale. Perché un conto è la tesi della Cgil, altra cosa è invece la posizione della Cisl, e in parte della Uil. E il punto dell’ex premier evita le contraddizioni della strana alleanza tra Pd, 5 Stelle, Azione e sinistra

Attorno al “salario minimo” sta emergendo un confronto politico, culturale e sociale di straordinaria importanza. Un confronto che evidenzia, al contempo, anche le profonde divergenze politiche che stanno caratterizzando i vari partiti in competizione. E, nello specifico, la cifra autenticamente riformista che si sta profilando. Anche nel come si intende affrontare, e possibilmente risolvere, il tema del salario minimo per i lavoratori italiani. E proprio la posizione mantenuta da Matteo Renzi può essere importante al fine di comprendere la stessa evoluzione del quadro politico italiano. Sia per quanto riguarda gli equilibri politici e sia, soprattutto, come si vuole affrontare uno dei temi più delicati dell’organizzazione del lavoro nel nostro paese.

Innanzitutto, come giustamente ha evidenziato l’ex Premier, non far parte di una maggioranza di governo non significa automaticamente riconoscersi nel cosiddetto schieramento alternativo. Cioè in un fritto misto fatto dalla sinistra radicale, populista e massimalista oltre all’aggiunta, alquanto singolare, di una realtà come quella di Azione. Cioè di un partito simil repubblicano e liberale. E questo per una ragione persin troppo semplice da spiegare. E cioè, chi non cavalca volgarmente la radicalizzazione della lotta politica e la polarizzazione ideologica tra i vari partiti, non può rinunciare alla politica, alla sua coerenza e soprattutto alla sua credibilità programmatica ed ideale solo perchè l’obiettivo è quello di annientare politicamente e pregiudizialmente il nemico implacabile. È una logica, questa, riconducibile a quella deriva degli “opposti estremismi” che era e resta alternativa ai canoni di una seria e credibile democrazia dell’alternanza.

In secondo luogo, e forse questa è la ragione politica fondamentale, se si vuol ricostruire nel nostro paese un centro e, soprattutto, una moderna e intelligente “politica di centro”, non è possibile dar vita ad un cartello elettorale che individua proprio nel centro, nel suo progetto riformista, nella “politica di centro” e nel mondo moderato l’avversario/nemico irriducibile ed implacabile da battere e da sconfiggere. E, del resto, l’alleanza ufficiosa ma del tutto omogenea tra la sinistra radicale e massimalista della Schlein, la sinistra populista e demagogica di Conte e di Grillo e la sinistra estremista e fondamentalista di Fratoianni e di Bonelli è semplicemente alternativa a tutto ciò che anche lontanamente è riconducibile al Centro. Un motivo in più, quindi, per tenersi distinti e distanti da quella prospettiva politica, culturale e programmatica.

In ultimo il tema del “salario minimo”. Al di là delle diverse interpretazioni che ogni partito persegue in modo più o meno strumentale – tanto nella maggioranza quanto nel campo dell’opposizione – è appena sufficiente scorrere le dichiarazioni dei vari leader di sinistra per rendersi conto che le singole posizioni sono e restano profondamente diverse tra di loro. Come, del resto, nel campo sindacale. Perché un conto è la tesi della Cgil – fortemente impegnata in un’azione di opposizione all’attuale Governo attraverso una piattaforma squisitamente e lucidamente politica – che, come quasi sempre nella sua lunga storia, antepone logiche di schieramento al merito delle singole questioni, altra cosa è invece la posizione della Cisl, e in parte della Uil, che storicamente, culturalmente e politicamente resta legata alla strategia della “contrattazione”.

Una cultura, questa, che resta molto diversa rispetto a chi ha del sindacato una concezione puramente politica e che stenta, di conseguenza, ad archiviare definitivamente quella cultura della “cinghia di trasmissione” che periodicamente riemerge come un fiume carsico e che, di conseguenza, è destinato a caratterizzare il rapporto tra il partito e il sindacato all’interno di quel campo politico. E, al riguardo, le parole pronunciate nei giorni scorsi dal segretario generale della Cisl Luigi Sbarra lo ha nuovamente confermato. “Noi della Cisl – ha detto infatti Sbarra – pensiamo che il salario minimo in questo paese vada fatto ma con i contratti e non con la legge. Perché – ha aggiunto – altrimenti rischiamo di creare alibi e pretesti ad imprese che a quel punto possono decidere di uscire dall’applicazione dei contratti e attestarsi rigorosamente sul rispetto della eventuale legge e determinare una spirale verso il basso della dinamica delle retribuzioni”.

Appunto, una forte priorità della contrattazione e non di una legge astratta che rischia di non tener conto della complessità del tessuto produttivo del nostro paese. Per questi motivi la posizione politica assunta da Renzi merita di essere evidenziata. Perché oltre ad essere politicamente coerente e coraggiosa, evidenzia anche le profonde contraddizioni che agitano e attraversano lo schieramento della sinistra italiana nelle sue multiformi espressioni. E, soprattutto, di come si può ancora declinare nel nostro paese una vera e propria cultura riformista e di governo.


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