Skip to main content

Verso la prima strategia di sicurezza nazionale? Scrivono Mazziotti e Coticchia (UniGe)

Di Matteo Mazziotti di Celso e Fabrizio Coticchia

L’Italia è l’unico Paese del G7 a non disporre di un documento simile. Grazie soprattutto agli sforzi del ministero della Difesa, il tema ha acquisito salienza negli ultimi mesi. L’elaborazione sarà un’attività estremamente complessa. Per questo, il governo italiano dovrebbe analizzare con attenzione le modalità con le quali altre medie potenze hanno elaborato questi documenti. L’analisi di Matteo Mazziotti di Celso e Fabrizio Coticchia

Lo scorso 13 luglio si è riunito al Palazzo del Quirinale il Consiglio supremo di difesa. Al termine della riunione, inevitabilmente focalizzata sugli gli esiti del vertice Nato di Vilnius e sulla guerra in Ucraina, il Consiglio ha ribadito che “nell’attuale e nel futuro scenario internazionale, difesa e sicurezza devono essere considerati obiettivo comune per le istituzioni della Repubblica, sulla base di una strategia di sicurezza nazionale, predisposta dal Governo e approvata dal Parlamento”. Che la più alta sede istituzionale per la discussione e l’approfondimento dei temi relativi alla sicurezza e alla difesa faccia esplicito riferimento a una eventuale strategia di sicurezza nazionale testimonia di quanto l’urgenza di dotare l’Italia di un documento di questo tipo sia divenuta un tema saliente nel dibattito politico italiano.

Nei mesi passati, il tema era stato proposto a più riprese dal ministro della Difesa, Guido Crosetto. A fine gennaio del 2023, illustrando le linee programmatiche del dicastero di fronte alle commissioni riunite Difesa di Camera e Senato,  il ministro evidenziava la necessità di elaborare ‘una chiara strategia di sicurezza nazionale […] per il conseguimento di obiettivi sinergicamente definiti all’interno di una visione unitaria dell’interesse nazionale’. Anche nell’Atto di indirizzo 2024, si riporta come la delibera che autorizza le missioni militari italiane debba “essere la risultante di una visione unitaria delle relazioni internazionali e degli obiettivi strategici declinati a priori in una strategia di sicurezza nazionale”. I recenti interventi del ministro sul tema si pongono in continuità con quanto delineato dal Libro bianco della Difesa del 2015, che auspicava che parlamento e governo alimentassero una seria riflessione strategica sui temi della sicurezza e della difesa, arrivando alla definizione di una strutturata strategia di sicurezza nazionale – a testimonianza di come Palazzo Baracchini abbia decisamente assunto il ruolo di principale promotore dell’iniziativa.

Tali speranze sono state finora disattese. Dopo la pubblicazione della prima strategia di sicurezza nazionale tedesca, avvenuta lo scorso 14 giugno, l’Italia rimane l’unico Paese del G7 a non disporre di un documento di questo tipo. Roma (per motivi storici, culturali e politici) fa purtroppo parte di quelle schiera sempre più ristretta di Paesi che, di fronte a un contesto globale in continua evoluzione e caratterizzato dall’emergere di un sempre maggior numero di minacce di natura progressivamente più complessa, non dispone di una bussola che guidi la politica di sicurezza del Paese.

Eppure, negli ultimi anni l’esigenza di disporre di questa bussola è divenuta urgente. A partire dalla pubblicazione del Libro bianco della Difesa nel 2015, si è sempre più spesso fatto aperto riferimento – in un contesto segnato dal ritorno della competizione tra potenze e dalla crisi dell’ordine liberale internazionale – alla necessità da parte dell’Italia di difendere i propri interessi nazionali, specialmente in aree strategicamente vitali come il Mediterraneo allargato. Governi e partiti diversi hanno condiviso tale esigenza, a fronte di minacce percepite quali terrorismo, immigrazione clandestina, scarsità energetica. In altre parole, l’instabilità di questa regione viene letta come minaccia primaria per gli interessi italiani. Gli interessi però non sono costanti e prestabiliti ma, per essere adeguatamente difesi, devono essere definiti. Tali interessi non sono mai stati distintamente esplicitati nel caso italiano, mentre non sussiste una chiara priorità delle minacce, e gli strumenti di un sistematico approccio nazionale rimangono vaghi. Tutto ciò in uno scenario regionale che da qualche anno vede l’Italia – la cui politica estera e difesa è stata tradizionalmente collegata a doppio filo con le scelte adottate in ambito Nato o nei contesti multilaterali di riferimento – agire (volente o nolente) in modo maggiormente autonomo. Se Roma ha seguito per decenni decisioni adottate dall’alleato maggiore o da Unione europea, Nato e Nazioni Unite, la finestra di opportunità che sussiste nel Mediterraneo allargato, una regione non ritenuta di primaria importanza strategica da Washington, impone allora all’Italia di definire con precisione quali siano i suoi interessi. In questo contesto, la strategia di sicurezza nazionale dovrebbe in primo luogo fornire tali risposte, prioritizzando gli obiettivi e individuando i mezzi adeguati per raggiungere gli obiettivi previsti.

 

Come formulare la strategia italiana?

L’elaborazione di una strategia di sicurezza nazionale, tuttavia, rappresenta un attività estremamente complessa. Come hanno recentemente avuto modo di notare gli analisti tedeschi, il processo di redazione è in effetti uno dei compiti più ardui che un governo possa portare a termine. Stabilire gli obiettivi della sicurezza nazionale e le modalità attraverso le quali raggiungerli implica infatti una chiara definizione dell’interesse nazionale. Non è pensabile stabilire gli obiettivi della sicurezza dell’Italia se prima non vengano esplicitati formalmente quali siano gli interessi nazionali del Paese. Come evidenzia il professor Andrea Ruggeri, la formulazione degli interessi nazionali non deve tenere conto solamente di fatti, ma soprattutto di principi normativi. Un primo passo verso la strategia di sicurezza nazionale, quindi, richiede che le forze politiche italiane rendano espliciti oggi i loro principi normativi fondamentali in tema di politica estera e di sicurezza.

Una formulazione chiara ed esplicita dell’interesse nazionale, tuttavia, rappresenta solo il presupposto per l’elaborazione della strategia. L’avvio del processo di redazione del documento richiede un supporto solido da parte della maggioranza delle forze politiche. In questo senso, lo studio che abbiamo condotto (parte di una ricerca interdisciplinare più ampia sul tema dell’interesse nazionale condotta dal professor Alberto Quagli) sul processo di elaborazione della strategia di sicurezza nazionale in altre tre medie potenze – Germania, Regno Unito e Giappone – ha rivelato come, in tutti e tre i casi, l’avvio del processo è stato reso possibile dall’intreccio di fattori strutturali e contingenti in ambito domestico. I fattori strutturali dipendevano dall’evoluzione del contesto di sicurezza regionale e globale. Nel caso inglese, l’avvento di nuove minacce transnazionali, specialmente il terrorismo, nel contesto del mondo post-Guerra Fredda; nel caso giapponese, l’evoluzione del contesto di sicurezza nell’Indo-Pacifico, in particolare l’ascesa della Cina e le minacce della Corea del Nord; nel caso tedesco, il Rebalance to Asia degli Stati Uniti e il revisionismo russo. Tali fattori hanno contribuito a portare i temi della sicurezza e della difesa al centro del dibattito pubblico, in questo modo costruendo un supporto politico di base per l’elaborazione del processo. Eppure, questi fattori non bastano. In Giappone, per esempio, si è cominciato a parlare di strategia di sicurezza nazionale già a inizio del nuovo secolo, ma fino a quando il governo giapponese presieduto da Shinzo Abe non ha goduto di una stabilità politica sostanziale, esso non è riuscito a implementare le riforme necessarie per avviare il processo di elaborazione del documento. Più in generale, in tutti e tre i casi, l’esecutivo è riuscito ad avviare il processo grazie all’emergere di fattori contingenti nel contesto politico che hanno permesso di vincere l’opposizione interna. L’insieme di fattori esterni e interni, quindi, mediati dall’evoluzione dell’evoluzione della riflessione strategica e dei valori condivisi a livello nazionale, rappresentano i driver dietro le scelte della strategia di sicurezza nazionale.

Le modalità stabilite dall’esecutivo per procedere all’elaborazione del documento influenzano notevolmente le caratteristiche del prodotto finale. L’individuazione di un organo centrale che si assuma la guida del processo, in questo senso, rappresenta una scelta chiave. In questo caso, l’esperienza tedesca è istruttiva. Al contrario di quanto avvenuto nel Regno Unito e in Giappone, dove la guida del processo è stata affidata al National Security Council, in Germania la strategia è stata elaborata di concerto dall’ufficio del cancelliere e dal ministero degli Esteri, con una forte influenza anche del ministero delle finanze. La scelta riflette la natura dell’esecutivo tedesco, ovvero quella di un governo di coalizione, formato da esponenti di culture politiche (socialdemocratica, verde e liberale) diverse tra loro sui temi della sicurezza e la difesa. Ciò ha determinato due principali risultati. In primo luogo, un rallentamento del processo di elaborazione della strategia. La strategia tedesca, infatti, doveva inizialmente essere pubblicata a dicembre, ma a causa di frizioni interne è stata rimandata ben due volte. In secondo luogo, l’assenza di un organo centrale alla guida del processo ha prodotto una SSN che ha lasciato diversi temi senza risposta, rimanendo alquanto vaga su alcuni aspetti cruciali, come le spese militari – la strategia di sicurezza nazionale manca di dettagliare come e quando la Germania raggiungerà la soglia del 2% di spese militari sul prodotto interno lordo chieste dalla Nato.

Nello stabilire le modalità con cui viene elaborata la strategia, l’esecutivo deve porre particolare attenzione agli attori da coinvolgere. L’analisi dei tre casi studio dimostra che la scelta di includere un ampio spettro di attori risulta premiante. Le prime strategia di sicurezza nazionale elaborate nel Regno Unito nel 2008 e 2009, per esempio, sono state influenzate negativamente dal mancato coinvolgimento nel processo di alcuni dicasteri chiave, come quello del Tesoro, con l’inevitabile risultato che alcuni obiettivi stabiliti dalla strategia si sono poi rivelati economicamente non sostenibili. D’altro canto, il caso del Regno Unito è illustrativo di quanto rilevante possa essere l’inclusione di esponenti dell’accademia e del mondo della ricerca all’interno del processo. L’esecutivo britannico ha costantemente beneficiato di consulenze esterne aprendo delle “call for evidence”, ai quali decine di professori, ricercatori e esperti della società civile hanno partecipato inviando i risultati delle loro ricerche.

Infine, un ultimo aspetto da considerare nello stabilire le modalità di elaborazione della strategia riguarda l’approccio da adottare per identificare e mettere in ordine gerarchico le sfide alla sicurezza. L’analisi dei tre casi rivela che esistono due approcci: il primo, sposato dal Regno Unito nel 2010 e nel 2015 – ma parzialmente anche nel 2021 – è un approccio di gestione del rischio (risk management). Una strategia costruita su questo approccio pone il focus dell’analisi sui rischi che minacciano la sicurezza nazionale, elencando per ognuno di essi le misure che il paese intende adottare per farvi fronte. L’obiettivo reale della strategia è quindi quello di identificare il ‘come’ reagire alle minacce. Un secondo approccio, perseguito da Giappone e Germania, non concentra l’analisi sulle misure da adottare per difendersi dal rischio, cioè i mezzi, ma sui fini. L’obiettivo reale della strategia è definire gli obiettivi della politica di sicurezza del paese, non tanto i mezzi per difendersi dai rischi. Non a caso, mentre il Regno Unito elenca approfonditamente le misure adottate per far fronte ai rischi che minacciano la propria sicurezza – soprattutto nella Strategic Defence and Security Review– fino a definire le risorse messe in campo, Germania e Giappone restano molto più vaghi, non fornendo dettagli sulle risorse e concentrano l’analisi sugli scopi: non a caso, le loro strategie sono anche più brevi. Ognuno di questi approcci presenta dei potenziali problemi: il primo, quello adottato dal Regno Unito nel 2010/2015, può risultare eccessivamente reattivo; il secondo, rischia di rimanere lettera morta, o di dover essere integrato con una serie di altri documenti strategici che possono, a loro volta, apparire poco coerenti col disegno generale della strategia.

Nel complesso, quindi, sono molteplici le lezioni apprese per l’Italia che derivano dalla modalità con le quali altre medie potenze (in contesti politico-culturali diversi o più simili a quello italiano) hanno elaborato le loro strategie di sicurezza nazionale. In un contesto nazionale segnato da un livello limitato di riflessione strategica sui temi della sicurezza, appare davvero vitale che il processo che porta alla definizione della prima strategia di sicurezza nazionale italiano possa essere – a livello pubblico e parlamentare – il più ampio, partecipato e trasparente possibile.

×

Iscriviti alla newsletter