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Election day, il baluardo della stabilità che serve all’Italia. Scrive De Tomaso

Il susseguirsi delle verifiche elettorali favorisce le tentazioni di crisi e il ricorso a politiche demagogiche e populistiche. Meglio accorpare gli appuntamenti alle urne. Il caso delle prossime europee

La cronica instabilità politica italiana non dipende solo da un sistema costituzionale che antepone la rappresentatività alla governabilità, né dipende solo da un ventaglio di sistemi elettorali che scoraggiano la compattezza delle alleanze per incoraggiare invece la loro rivalità interna. L’instabilità del sistema Italia, a prescindere dalle regole del voto occasionalmente in vigore, deriva innanzitutto dal fatto che, nella Penisola, fra le europee, le politiche, le regionali, le comunali, si va alle urne, come minimo, una volta l’anno. Se poi le assemblee vengono sciolte in anticipo rispetto alla scadenza naturale, la giostra delle consultazioni può girare ancora più velocemente rispetto agli ordinari canonici appuntamenti.

Di conseguenza il tasso di competitività e di litigiosità all’interno di ogni coalizione raramente si spalma e si annulla in lunghi periodi di tregua. Infatti. Le fasi di serenità e collaborazione in uno schieramento politico si possono contare sulle dita di una sola mano nell’arco di un quinquennio, perturbate come sono dalle incursioni climatiche dei continui richiami elettorali collaterali. Anche il governo Meloni, che pure dispone di una maggioranza numerica a prova di bomba, deve superare mille ostacoli interni per sfuggire alla spada di Damocle che pende su tutti gli esecutivi: il rischio di una rottura provocata dai colpi bassi e dalle ambizioni contrastanti che immancabilmente scattano tra i partner di una coalizione alla vigilia di tutte le conte elettorali. E nella prossima primavera si vota per rinnovare il parlamento europeo.

Per scongiurare il pericolo di una crisi improvvisa, sull’onda di un passo falso di un ministro o di una dichiarazione infelice da parte di un socio di maggioranza, finora il sistema politico e politologico ha escogitato – in mezzo secolo di discussioni e di polemiche – una lista infinita di riforme elettorali, al cui confronto l’Enciclopedia Treccani fa la figura di un libriccino per fanciulli. Qualche volta i tentativi di modificare le regole del gioco sono andati a segno, ma il più delle volte no. E però anche quando la spinta riformatrice è riuscita a tagliare il traguardo, l’esultanza è svanita al primo test della novità introdotta. Sì, perché tu puoi anche cambiare da cima a fondo l’assetto costituzionale e la legge elettorale di uno Stato, ma se le chiamate alle urne si rincorrono alla velocità e con le modalità dei ciclisti impegnati in pista, il risultato finale non cambia. Il susseguirsi delle verifiche elettorali manterrà sempre surriscaldato il clima politico, specie all’interno di ogni singola cordata, con buona pace di tutti i propositi di rasserenamento dei rapporti tra compagni di scalata duraturi e/o provvisori.

Esiste forse un solo accorgimento in grado di placare gli animi dentro ciascun cartello politico: l’election day, vale a dire l’accorpamento di tutte le tornate elettorali, europee, nazionali, regionali e amministrative. Un obiettivo, bisogna ammettere, facile a dirsi e difficile a realizzarsi, anche perché esposto al rischio vanificazione a causa delle frequenti interruzioni di legislature e consiliature. Ma, tutto sommato, rimane un obiettivo meritevole di essere raggiunto, non foss’altro perché ridurrebbe notevolmente la nevrosi elettoralistica che pervade ogni sigla politica.

Un conto è contarsi ogni cinque anni, salvo eventuali scioglimenti anticipati delle assemblee, un conto è contarsi, o pesarsi, ogni anno all’interno di un partito e di una coalizione. Sarebbe come passare dal giorno alla notte.

Se poi le prove elettorali che incombono su un governo si svolgono all’insegna del criterio proporzionale, la prospettiva dello scollamento di un’alleanza diventa ancora più plausibile, dal momento che la ripartizione proporzionale dei seggi induce a privilegiare la ragione di partito rispetto allo spirito di coalizione. Il che conduce a un’inevitabile divaricazione strutturale di proposte e obiettivi da parte dei soci politici. È il caso delle europee 2024, una sorta di super-verifica popolare per il governo in carica e per i rapporti di forza tra i suoi componenti. Non è un mistero che Matteo Salvini voglia recuperare parte dei voti persi dalla Lega nelle politiche 2022 e che lui miri ad accorciare le distanze dal patrimonio elettorale di Giorgia Meloni. Un progetto, quello di Salvini, che non sarà indolore per la titolare di Palazzo Chigi: la Lega cercherà in tutti i modi di garantirsi, differenziandosi e sgomitando su molti temi, una visibilità in grado di rifare breccia nell’elettorato di centrodestra sedotto dalla Meloni nelle parlamentarie delle scorso anno. Il tentativo di rimonta da parte di Salvini è già iniziato e non si sa se o quando si fermerà. Né si sa, ovviamente, se sarà coronato dal successo, più o meno parziale. Si sa solo che, inesorabilmente, non agevolerà la tenuta della maggioranza.

Ora. Come si possa immaginare in Italia una fase di accettabile governabilità in una condizione di permanente conflittualità pre-elettorale, forse neppure un’anima candida oserebbe ipotizzarlo. Ergo, non rimane, o non rimarrebbe, che cercare di attenuare sul nascere le prove muscolari tra gli alleati, alla vigilia di ogni turno elettorale, ricorrendo al salvagente di nome election day. Se ne gioverebbero le forze di maggioranza e anche le forze di minoranza, visto che anche quest’ultime non sono mai escluse, al loro interno, dal fuoco amico tra rivali e concorrenti vari. Ma se ne gioverebbe innanzitutto il Paese, cui verrebbe risparmiata una raffica ininterrotta di sparate demagogiche e populistiche, congeniali a raccattare voti e a scassare i conti pubblici. Quando un governo nazionale o una giunta locale hanno sul serio cinque anni di tempo per realizzare il loro programma, senza cioè dover schivare le frequenti interferenze, le continue distrazioni e i relativi condizionamenti, nel quinquennio in questione, da parte di altre orge elettorali, non ci sono alibi, o ce ne sono molti di meno, per rinviare a tempi migliori la loro agenda di interventi presentata ai cittadini. Inoltre l’election day contribuirebbe a ridurre la tentazione di fare nuovo debito pubblico pur di comprare il consenso anche nelle altre incessanti fiere elettorali che si tengono in Italia.

Accorpare tutti i riti elettorali sarebbe dunque la soluzione migliore e aiuterebbe l’economia, la disciplina finanziaria, sotto molti punti di vista. Non ne parla più nessuno, ma forse sarebbe il momento dì riparlarne. Anche perché le riforme migliori sono quelle a costo zero, che, purtroppo, perdono appeal proprio per colpa della loro gratuità. Ma non sempre una cosa senza prezzo non ha valore. Specie in politica.

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