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Dagli extraprofitti alla stabilità internazionale. Scrive Fracchiolla

Il governo Meloni gode di un ampio consenso popolare, ha costruito relazioni internazionali forti e rispettose dei valori occidentali, linee di politica estera convintamente atlantiste e saldamente europeiste. Questi pilastri sono necessari e fondamentali per costruire il futuro del paese, ma nessun provvedimento economico sovranista o populista giudicato inaffidabile può ostacolare la forza dei mercati. Il commento di Domenico Fracchiolla, professore di Storia delle Relazioni Internazionali

 

Una vecchia storia. Lo sviluppo dei paesi occidentali e non nel corso dei secoli è saldamente e incontrovertibilmente ancorato all’affermazione dei sistemi di libero mercato, insieme ad istituzioni politiche liberaldemocratiche. Tuttavia, periodicamente, con sempre maggior insistenza, il mercato è vittima del suo successo e le crescenti esigenze del ritorno del welfare state, insieme a crisi ricorrenti, hanno trasformato le economie libere in economie miste, con una presenza massiccia dello stato nell’economia e nella società. Nell’attuale fase della comunità internazionale, tra Stato regolatore e capitalismo sussidiario di Paul Sweeney, lo spazio del libero mercato si è ristretto sempre più e passa per la cruna dell’ago della rimodulazione occidentale della globalizzazione, condotta dai governi dei principali attori internazionali, a parole più rispettosa e attenta ai diritti dei propri cittadini e di quelli via di sviluppo, ma soprattutto guidata dalle esigenze pressanti della geopolitica del potere.

Dal presidente Biden al Segretario del Tesoro Yellen, al capo della Diplomazia Ue Borrell, sono sottolineati i rischi del decoupling per le democrazie occidentali, del disaccoppiamento della prosperità dalla sicurezza e la conseguente necessità di relazioni commerciali più sicure con amici fidati, anche con costi più elevati e sistemi meno efficienti, perché i mercati non sono fatti solo della materia dell’efficienza, ma anche del potere, secondo risorse, vulnerabilità e capacità dei singoli paesi. La globalizzazione finanziaria ha tradito molti paesi più fragili in via di sviluppo e le promesse di crescita e stabilità finanziaria si sono rivelate fallaci.

Lo stesso Fmi ha riconosciuto alla fine che le politiche di austerità imposte ai pesi che ricevono il suo sostegno finanziario hanno aumentato le disuguaglianze e frammentato la crescita sostenibile. La risposta a queste crisi è stata univoca, o quasi: serve più stato o peggio, in alcuni casi, si sono aperte le porte al sostegno finanziario interessato e politicamente invadente della Cina. Tralasciando, per ora, quest’ultimo aspetto, le crisi degli ultimi anni hanno approfondito una tendenza lunga un secolo dell’intervento dello stato nell’economia: dagli anni ’20 del ‘900 ad oggi la presenza dello stato nell’economia delle attuali liberaldemocrazie è passata dal 20% al 55% del Pil. La crisi economica e finanziaria del 2008, il Covid, la crisi energetica della Guerra in Ucraina, le tensioni tra Cina e Stati Uniti, le conseguenze economiche e sociali degli eventi climatici violenti hanno accentuato questa tendenza.

Tuttavia, in questo contesto, i governi, soprattutto di paesi in ripresa come l’Italia, devono occuparsi, con attenzione, anzi forse con anche maggior cura, dei fondamentali delle istituzioni e della cultura di libero mercato, pur rimodulate, dalle quali passa l’unica via di sviluppo, crescita e prosperità. Se in passato ha rappresentato un grave errore aderire alle forme ipersemplificate del mercato e dell’ortodossia monetaria, un errore anche più grave sarebbe commesso oggi rispondere al monito del decennio perso dell’economia globale sollevato dalla Banca Mondiale con linee di intervento che ignorano la profonda interconnessione e dipendenza reciproca dei mercati. Il mercato regolato è l’unica soluzione e l’unica via di sviluppo storicamente determinata e verificata. Ogni altra soluzione non ha funzionato. Più lo Stato è presente nel mercato, maggiore dovrà essere l’attenzione al rispetto delle regole, perché l’antica tentazione del capitalista “cattivo”, che non rispetta le regole del mercato per ottenere vantaggi oligopolistici o monopolistici a danno della società, è sempre in agguato. Il capitalista “buono” rispetta le regole e va premiato, non punito con provvedimenti inaspettati e destabilizzanti il mercato.

Il governo Meloni gode di un ampio consenso popolare, ha costruito relazioni internazionali forti e rispettose dei valori occidentali, linee di politica estera convintamente atlantiste e saldamente europeiste. Questi pilastri sono necessari e fondamentali per costruire il futuro del paese, ma nessun provvedimento economico sovranista o populista giudicato inaffidabile può ostacolare la forza dei mercati. Alcune decisioni, pur rivendicando una linea economica nazionale rispettosa dei più fragili e contro i poteri forti, soprattutto delle banche e delle multinazionali, possono rivelarsi un pericoloso boomerang, oltre ad essere tecnicamente sbagliati, come sottolineato da Giavazzi.

Inoltre, come evidenziato dalle reazioni dell’agenzia di rating di Moody sul piano della internazionale, l’affidabilità del paese ne risente. Senza andare molto lontani, la fragilità economica e finanziaria internazionale della Turchia, a seguito delle stravaganti concezioni economiche anticongiunturali del suo Presidente, non è coperta dalle scelte di politica internazionale, dal ruolo di grand commis che il Sultano Erdogan si è ritagliato o dal forte consenso (non democratico e manipolato) di cui ancora goda l’Akp. Ed il paese è in bilico.

Libero dalle contraddizioni dei liberali di sinistra, forte del sostegno di una forza di governo tradizionalmente e apertamente liberale e liberista, il governo Meloni dovrebbe rilanciare e realizzare la rivoluzione liberale del suo padre fondatore, piuttosto che superarla a destra o a sinistra, con preoccupazioni elettorali di breve periodo e sfumature nazional corporative di alcuni suoi componenti. Tra delega fiscale, lotta alle disuguaglianze, aperture sul salario minimo affidate al Cnel di Brunetta, crescita e disoccupazione ai minimi, il governo potrebbe e dovrebbe osare di più e rilanciare sulla cultura liberale del libero mercato, troppe volte sacrificata nella tradizione delle culture politiche italiane.

Più che nomine nelle partecipate, progetto di riordino del Ministero della Cultura, tagli e le epurazioni alle istituzioni culturali monopolizzate dalla sinistra, il governo dovrebbe autenticamente promuovere istituzioni e cultura liberale, per non ricadere negli stessi errori della sinistra. La lezione di Von Hayek sul coordinamento necessario per il funzionamento delle istituzioni, sul funzionamento dei mercati come aggregatori e distributori della conoscenza e della Teoria economica degli incentivi per i beni pubblici sono sempre valide e alla base della solidità e della prosperità delle nostre società.

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