L’idea di una contribution, come molte di quelle che in questi anni hanno fatto drizzare i capelli sull’altra sponda dell’Atlantico, arriva da Bruxelles ed è sostenuta da Thierry Breton e Margrethe Vestager. Proprio a loro arriva la lettera del sottosegretario Butti che chiarisce la posizione italiana. L’analisi di Giorgio Rutelli, direttore responsabile di Formiche.net
Arriva dall’Italia, per mano del sottosegretario all’Innovazione Alessio Butti, la richiesta di sospendere i piani dell’Unione europea per introdurre una ripartizione dei costi di uso della rete tra gli operatori di telecomunicazione e i fornitori di contenuti online.
Il sottosegretario aveva scritto il 4 agosto alla Commissione segnalando il rischio che la “tassa su internet” crei “un circolo vizioso di prezzi più alti, domanda più bassa, meno scelta e meno utilizzo a scapito di tutti operatori del mercato e consumatori”, chiedendo quindi all’esecutivo comunitario ulteriori approfondimenti su una proposta giudicata allo stato “prematura”. La Commissione europea non ha commentato, per il momento.
Giorgio Rutelli ne aveva parlato sull’ultimo numero della Rivista Formiche. Ecco la sua analisi.
Cosa c’è in un nome? Senza citare Shakespeare, o Nanni Moretti (“le parole sono importanti”), basterebbe parlare con uno studente di Marketing al primo anno per capire che il branding vale già un bel pezzo del lavoro. E nel dibattito sul contributo economico che le grandi piattaforme tecnologiche dovrebbero versare alle società di telecomunicazioni per sostenere lo sviluppo delle loro infrastrutture, si parte proprio dal nome.
Le telco lo chiamano fair contribution o fair share, la giusta quota, per dire che le grandi società che producono o aggregano contenuti (Netflix, Dazn, Google, Meta, Amazon, TikTok eccetera) e che occupano una grossa fetta della “banda” globale, dovrebbero fare la loro parte in uno sforzo che al momento sarebbe solo in capo a chi quel content lo veicola e lo fa arrivare nelle case, negli uffici, e sui nostri schermi di varie dimensioni.
Chi mai si opporrebbe a qualcosa che ha “equo” come aggettivo? Dall’altra parte, le big tech – non tutte, ma la definizione non dispiace – la chiamano Internet tax, un prelievo, un balzello (che per definizione è sgradito) su qualcosa che tutti consideriamo libero e aperto, e che finirebbe per pesare sui consumatori.
Nato con l’obiettivo di rivalersi, se non proprio di vendicarsi, del successo di un gruppo di società innovative che sono cresciute in modo vertiginoso mentre le telco vedevano ricavi e (soprattutto) margini sgretolarsi. Per ragioni, dicono nella Silicon Valley, che non dipendono da loro: scelte strategiche sbagliate, salassi governativi nelle aste 4G e 5G, concorrenza scriteriata e limiti alle fusioni imposti dalle authority nazionali ed europee.
Le società tecnologiche hanno poi due obiezioni: primo, stanno investendo decine di miliardi in cavi, centri dati, e in generale sulle infrastrutture che migliorano la qualità della rete globale; secondo, i loro contenuti saranno anche un “peso” ma senza di quelli gli utenti non chiederebbero di passare alle reti ad alta velocità.
La questione è lontana dall’essere risolta, per questo su Formiche.net abbiamo voluto lanciare un dibattito, a partire proprio dalla domanda se si tratti di una giusta quota o di una tassa su Internet, che ha coinvolto tutti gli attori in campo: telco, big tech, accademici, esperti, associazioni. La risposta è stata ampia e variegata.
L’idea di una contribution – l’aggettivo sceglietelo voi – come molte di quelle che in questi anni hanno fatto drizzare i capelli (e le antenne) sull’altra sponda dell’Atlantico, arriva da Bruxelles ed è sostenuta da Thierry Breton, commissario al Mercato interno e già capo di France Télécom-Orange, e Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza nota per le sue battaglie contro il potere straripante delle società tecnologiche americane.
La proposta entrerà nel vivo in autunno, forse già nel Consiglio Ue di ottobre, e avrà poche settimane per essere definita: la IX legislatura del Parlamento, e con lei il mandato della Commissione, volge al termine, dopo Natale si entrerà in campagna elettorale e tra il 6 e il 9 giugno 2024 si voterà nei 27 Stati membri.
Non c’è alcun limite formale al potere legislativo europeo nel semestre che precede le elezioni, ma c’è sicuramente un fattore politico: saranno i singoli commissari a decidere quali dossier portare a termine e quali lasciare a chi verrà dopo. Tutto dipende, inevitabilmente, dal prestigio di cui si gode ancora nelle istituzioni, dalle ambizioni personali, dalle dinamiche nazionali.
A proposito, qual è la posizione del governo italiano? Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alessio Butti, che ha le deleghe all’innovazione e alla trasformazione digitale, quando era all’opposizione aveva organizzato i seminari di Fratelli d’Italia in cui si affrontava la crisi delle telco e si immaginavano possibili soluzioni, tra cui il fair share.
Dopo le audizioni conoscitive che si sono svolte nell’arco di quest’anno, predica cautela e definisce “prematura” l’accelerazione sulla proposta. L’azione della Commissione europea – ha detto Butti in un paio di occasioni pubbliche – dovrà essere sostenuta da dati e numeri convincenti, il rapporto tra piattaforme e telco è “equilibrato”, gli investimenti nel settore non mancano e un prelievo sulle big tech potrebbe scatenare un circolo vizioso che farebbe crescere i prezzi per gli utenti deprimendo la domanda.
*L’articolo è stato pubblicato sul numero 194 della rivista Formiche