Le notizie non sono “internazionali” ma dominate dalla lingua inglese. Questo influisce sia sulla lettura degli eventi, sia sulla sensibilità degli spettatori, e rischia di falsare la traduzione del prodotto culturale. Barbara Serra, veterana del giornalismo per le tv di tutto il mondo, sviscera il rapporto tra notizie e anglofonia, dai diritti civili all’intelligenza artificiale
Non esistono notizie “internazionali”, ma esistono quelle “in lingua inglese”. Non deve sorprendere che il cosiddetto giornalismo internazionale sia dominato da aziende mediatiche e giornalisti anglofoni; e questo ha un enorme impatto su ciò che si pensa sia la narrazione “globale”. Questa la tesi di Barbara Serra, giornalista televisiva italo-britannica e volto di primo piano di diverse emittenti internazionali, tra cui BBC, Sky News e Al Jazeera. Oggi lavora come freelancer e sulla sua newsletter, News with a Foreign Accent, si dedica a sviscerare il tema del giornalismo globale – e la sua relazione con le culture non anglofone.
Le sue considerazioni sul giornalismo internazionale emergono direttamente dalla sua esperienza personale. Ci può fare una panoramica?
Ho lavorato per alcune delle emittenti internazionali più celebri per ventidue anni. Quello che mi ha sempre contraddistinto è che ero una delle poche persone non madrelingua inglese ad andare in onda sui grandi network, anche nelle fasce diurne. Come giornalisti la lingua è il nostro strumento, non si tratta solo di parlare bene ma di usarla per raccontare. Naturalmente è più difficile farlo in un’altra lingua. Però nel corso degli anni ho sempre notato l’esistenza di una narrazione imperante, quella del mondo anglofono, anche nelle redazioni cosiddette internazionali.
In sostanza, crede che la lingua inglese veicoli anche una certa chiave di lettura?
Uno dei motivi per cui ho avviato News with a Foreign Accent è appunto perché non credo che esista il giornalismo internazionale: credo che esista quello in inglese. Non a caso i nomi più importanti del giornalismo – CNN, BBC, ma anche Financial Times, Economist e gli altri – hanno in comune la lingua inglese. Questo vale anche per le emittenti non anglosassoni, come Al Jazeera, che infatti ha aperto il canale in lingua inglese (di cui sono stata una delle voci fondanti) per raggiungere un’audience internazionale. E certamente c’è un’influenza anglosassone un po’ nascosta. Dopodiché, se una cultura ha avuto un impatto nella maniera in cui parli, avrà un impatto anche nella maniera in cui pensi. Io sono parte dell’anglosfera, ma solo approdare ad Al Jazeera dopo le altre emittenti me l’ha fatto realizzare.
Ci può descrivere questa influenza?
Sia chiaro: non è malevola, subdolamente imperialista, una qualche maniera di controllare la narrazione internazionale e imporre un punto di vista anglofono. È la semplice conseguenza del fatto che l’inglese è la lingua dominante. E noto che tanti miei colleghi madrelingua, che oggi rivestono posizioni editoriali di grande responsabilità, che si impegnano per creare il miglior prodotto giornalistico e che io ritengo molto aperti mentalmente, semplicemente non ci pensano. La prima regola del privilegio è che se ce l’hai, non ti accorgi della sua esistenza, e non vedi le maniere in cui chi non lo ha viene penalizzato. Si vede anche nella scelta delle voci, per esempio: durante la pandemia, il 90% degli specialisti che intervistavamo erano americani e britannici. Dunque mi sono chiesta: che impatto ha tutto questo sugli altri?
Le viene in mente un evento o un periodo storico in cui la lettura anglofona era particolarmente vivida?
Certamente la war on terror (lanciata dall’amministrazione Bush nei primi Duemila, ndr). Al Jazeera English è andata in onda nel 2006 proprio per offrire una prospettiva dal mondo arabo. Ma a noi, da italiani, il mondo arabo veniva spiegato dai canali come BBC e CNN. Semplicemente i network italiani non avevano la stessa copertura, né risorse comparabili. A ogni modo, questa è una tendenza trasversale. Si vede in tutte le storie, dalla copertura su Giorgia Meloni alla morte di Silvio Berlusconi: letture che arrivano dal mondo anglofono ma poi vengono presentate come il punto di vista della stampa internazionale.
Funziona anche al contrario?
Certo. Con un mio documentario per Al Jazeera, Fascism in the Family (dove Serra esplora la relazione dei suoi familiari con il regime fascista, ndr) ho notato che le reazioni del pubblico americano e britannico erano completamente diverse rispetto a quelle del pubblico continental-europeo e del resto del mondo. Perché? Non solo gli anglosassoni erano dalla parte giusta nella Seconda guerra mondiale, ma non hanno vissuto una dittatura nella storia recente, e dunque non pensano che possa accadere di nuovo. Siamo formati dalla nostra storia: il problema inizia quando un certo punto di vista viene presentato come la voce del mondo.
E le conseguenze?
Lo vediamo anche sui social media oggi, cosa fa trending su TikTok, o come si tratta la questione dei diritti LGBTQ+, tematiche di giustizia sociale molto presenti sui social e con parecchia risonanza tra i giovani. Trovo spesso frasi copincollate direttamente dal dibattito americano, tradotte letteralmente e inserite in un contesto diverso. Ma certe battaglie sono già state vinte, certi diritti sono dati per scontati negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove le adozioni gay, come i matrimoni, sono la norma da tempo. Qui in Italia no; ma intanto stiamo assorbendo tutto il dibattito anglosassone importandolo in un contesto diverso, in una società più patriarcale. Non si possono vincere le battaglie senza tener conto del contesto: penso che sia un errore e anzi possa provocare un contraccolpo a livello sociale.
Al punto da distorcere la diffusione delle idee?
Il punto è che si sta trapiantando una visione del mondo americana in una maniera che non favorisce l’attecchimento delle idee. E questo vale anche all’interno della stessa anglosfera. La questione è trattata in maniera ottima nel libro di Tomiwa Owolade, This Is Not America. Lui è un cittadino britannico di discendenza africana che esplora la differenza dei movimenti antirazzisti e anticolonialisti negli Stati Uniti, come il Black Lives Matter, e del Regno Unito. Spiega che le dinamiche sono diverse, l’oppressione nei confronti degli afroamericani è letta con altre chiavi di interpretazione perché la storia della comunità nera d’America e quella dell’Inghilterra è diversa: una ha a che fare con la schiavitù, l’altra con il colonialismo.
Per tornare all’accelerazione digitale: un suo post su News with a Foreign Accent parla dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul giornalismo nel mondo.
La verità è che non sappiamo ancora esattamente che forma possa prendere una redazione o un contenuto giornalistico “potenziato” dall’IA. Nel post faccio l’esempio di una mia collega, Melissa Chan, che si è filmata mentre leggeva un pezzo in inglese e ha utilizzato l’IA per far sì di parlare in spagnolo. Nel video c’è lei, la voce è sua, ma la lingua è spagnolo con tanto di intonazione. E a una prima lettura uno direbbe che sia fantastico… Potremmo vedere i telegiornali di qualsiasi Paese in italiano. Ma evidentemente questo sistema veicola anche l’impostazione, le idee scritte da un anglosassone, in inglese, e poi tradotte, senza considerare che telespettatori diversi hanno chiavi di lettura e conoscenze diverse. Ed essendo i media internazionali già dominati dai network anglofoni, c’è il rischio che le notizie vengano date sempre più “in inglese”: non solo come lingua, ma come impostazione.
Una pratica da evitare?
Il potenziale è anche positivo, non sono catastrofista. Si può anche utilizzare la stessa tecnologia al contrario per alimentare una vera narrazione internazionale. Ma quando da giornalista scrivo un pezzo penso: a chi sto parlando? E non cambio la sostanza, ma provo a venire incontro alla chiave di lettura dei miei lettori. Vale anche per il cosiddetto pubblico internazionale: una locuzione che evidentemente vuol dire tutto e niente, ma tant’è, adatto e aggiusto il contesto attorno al fatto perché sarebbe un errore dare certi elementi per scontati. Il rischio che vedo io è che il potenziale dell’IA nella traduzione non venga utilizzato in entrambe le direzioni, e dunque che il punto di vista anglofono continui a essere propagato, ma in maniera ancora più sottile.