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È l’ora della normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita benedetta da Biden?

Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

Washington e Riad avrebbero raggiunto un accordo di massima per il riconoscimento dello Stato ebraico in cambio di concessioni ai palestinesi, garanzie di sicurezza e aiuti per il nucleare civile. Per il ministro Cohen l’ultimo passo necessario è “a portata di mano” e l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali Usa aiuta

La normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita “è a portata di mano”, ha detto il ministro israeliano degli Esteri israeliano Eli Cohen in un’intervista a Ynet. Cohen ha aggiunto che è il raggiungimento di un accordo tra Tel Aviv e Riad è solo questione di tempo e che un’intesa sarebbe negli interessi degli Stati Uniti. “L’amministrazione Biden vuole un risultato politico prima delle elezioni presidenziali del 2024”, ha spiegato Cohen. “Gli americani”, ha sottolineato, “sono interessati anche all’economia e un accordo tra Stati Uniti e sauditi abbasserebbe i costi energetici. I sauditi cercano una difesa contro l’Iran”.

Le “discussioni sono in corso” e c’è ancora molto lavoro da fare prima di arrivare a una “cornice” per la “normalizzazione” dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, aveva detto ieri John Kirby, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, commentando le indiscrezioni del Wall Street Journal. Il quotidiano, citando fonti dell’amministrazione, aveva riferito che gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno raggiunto un accordo di massima affinché Riad riconosca Israele, in cambio di concessioni ai palestinesi, garanzie di sicurezza e aiuti per il nucleare civile da parte di Washington.

In un’intervista rilasciata a Bloomberg lunedì anche per rassicurare gli investitori sulla stabilità del suo Paese, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si era detto “aperto a possibili concessioni nei confronti dei palestinesi” se un accordo con l’Arabia Saudita dovesse dipendere da questo. Nel colloquio aveva lasciato intendere che non avrebbe permesso ai membri della sua coalizione di bloccare un possibile accordo con Riad. Il giorno prima, in un’intervista al quotidiano di proprietà saudita Elaph, il ministro Cohen aveva spiegato che la questione palestinese “non sarà un ostacolo alla normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita”. L’attuale governo israeliano “adotterà misure per migliorare l’economia palestinese”, aveva assicurato commentando la possibilità che Riad possa chiedere “significative concessioni” ai palestinesi per un accordo di normalizzazione con Israele. “Una visita in Israele di un ministro degli Esteri saudita sarebbe un giorno di festa”, aveva osservato Cohen.

La strada sembra piuttosto spianata e porta a un Medio Oriente che appare oggi più sereno delle aspettative. Alcuni analisti osservano che la normalizzazione potrebbe giungere entro la fine dell’anno. Ma è anche vero che i sauditi, in particolare il principe ereditario Mohammed bin Salman, hanno parlato dell’intesa in modo diverso rispetto agli interlocutori che si trovava davanti. Il dossier è di massimo rilievo, dunque anche la narrazione che lo circonda.

Nel 2020 gli Accordi di Abramo, il successo diplomatico più significativo dell’amministrazione Trump, hanno portato alla normalizzazione delle relazioni di Israele con il Bahrein, il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti. Due anni fa si è concluso il blocco di Qatar da parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti con il processo noto come “riconciliazione di al Ula”. Il Consiglio di cooperazione del Golfo ha ritrovato una certa facilità d’azione. Lontano dall’essere più considerato un paria, il presidente siriano Bashar al-Assad è stato accolto con favore a un vertice della Lega Araba a Riad, in Arabia Saudita, e parteciperà all’attuale summit COP28 organizzato dagli Emirati Arabi Uniti. La Cina ha facilitato la normalizzazione delle relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran, un risultato diplomatico con implicazioni economiche e securitarie, che sta procedendo col riavvio dei canali diplomatici. Una tregua nella sanguinosa guerra – e nella conseguente crisi umanitaria – in Yemen è in atto, seppure in equilibrio instabile. L’Oman e l’Iran stanno cercando di portare le relazioni a un livello più sereno dopo una visita del sultano Haitham bin Tariq a Teheran.

Recentemente, l’Arabia Saudita ha offerto unilateralmente una riduzione di un milione di barili al giorno nella produzione senza chiedere agli altri membri dell’Opec di fare altrettanto, migliorando così le relazioni interne. Nel frattempo, la Pga (Professional Golfers’ Association) ha annunciato la fusione con Liv Golf, con sede in Arabia Saudita, solo pochi giorni dopo che un commissario della Pga aveva denunciato l’Arabia Saudita per violazioni dei diritti umani. Che il patto venga o meno alla fine approvato, può contribuire a far dimenticare che il principe sauditabin Salman nel 2018 aveva “autorizzato” un’operazione per “catturare o uccidere” il giornalista dissidente Jamal Khashoggi, come recita un rapporto dell’intelligence statunitense diffuso dall’amministrazione Biden due anni fa.

Le potenze emergenti del Golfo con lo scombussolamento del mercato energetico conseguente all’invasione russa dell’Ucraina, hanno visto quello che è ancora il core business delle loro economie acquisire ulteriore rilievo. Occasione per spingere i processi di transizione (economica e culturale). È questa la base su cui si è impostato il desiderio (e la necessità) di  distensione che sta segnando l’attuale fase storica della regione. Distanze come quella tra iraniani e sauditi, o sauditi e israeliani, sono profondamente incolmabili. Ma tatticamente, in questa fase, conviene costruire vie per aggirarle o ponti per bypassarle.

Paesi come Arabia Saudita ed Emirati hanno da tempo percepito la necessità di acquietare le divisioni con Israele, perché Tel Aviv può garantire copertura sia alle richieste di sicurezza — in accoppiata con l’obiettivo statunitense di alleggerire il proprio coinvolgimento nella regione — sia alla necessità di spingere quelle transizioni attraverso le nuove tecnologie (di cui Israele è un campione globale). Un processo comune in cui si intravvedono aspetti noti di competitività. Riad e Abu Dhabi per esempio sono lanciate da tempo nel tentativo di rappresentare i rispettivi interessi sul palcoscenico globale.

Un esempio è la riunione di Gedda, che ha portato Nord e Sud del Mondo attorno a un tavolo di dialogo con Kyiv. O per restare in tema, il tentativo emiratino di sfruttare il vertice Cop28 per ospitare un faccia a faccia tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, ambizioso quanto improbabile sforzo diplomatico che ha come fine generare soprattutto riverbero mediatico. Lo stesso che potrebbe avere una normalizzazione tra sauditi e israeliani. Un colpo di immagine clamoroso, che porterebbe Riad su un livello superiore di rappresentanza e permetterebbe un successo anche a Joe Biden (da spendere in vista di Usa2024?). Ma che richiede per questo anche delicatezza: l’Arabia Saudita custodisci i luoghi sacri dell’Islam, e questo governo israeliano non è il migliore esempio di gestione dei rapporti con i palestinesi e con gli arabi israeliani.



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