È vero che Polibio in fondo è un ottimista e disegna un ciclo che, dopo il tempo degenerato ne apre uno buono nell’alternanza dei governi. Ma noi, che siamo affezionati alla vecchia democrazia, ci permettiamo di insistere sul “fattore popolo”: prendere coscienza di quel che accade, piuttosto che protestare disertando le urne, potrebbe cambiare le cose. La rubrica di Pino Pisicchio
Per convenzione condivisa il nove novembre del 1989, con la caduta del muro di Berlino, è finito il “secolo breve”, quel Novecento a trazione ideologica che ha nutrito generosamente tutto il bene e tutto il male degli ultimi cent’anni del millennio passato. C’è dunque un “prima” e un “dopo” Berlino e la linea di confine è stata la polverizzazione del comunismo, che ha trascinato con sé, nel buco nero delle storie perdute, tutte le altre storie, lasciando in piedi solo la “para-ideologia” del capitalismo digitale, che ha reinventato il canone descritto da Weber e dai grandi classici. Ma questa è davvero un’altra storia.
Dunque la politica, dopo quella cesura così definitiva, ha preso un’altra passo, una postura diversa, liquidando i nutrimenti ideologici del Novecento. È avvenuto in tutto il mondo occidentale e anche in Italia. Da noi ci fu una breve stagione intermedia, generata più da una fioca marcia inerziale, in cui i partiti corsero a spezzare i cordoni ombelicali col passato, cancellando in fretta e furia quel che erano prima, comunisti sconfitti o democristiani e socialisti pentapartiti che fossero, tenendo in vita, almeno alcuni partiti, il ceto politico o quel che ne era rimasto dopo il furore iconoclasta di Tangentopoli.
Così nel ‘91 Achille Occhetto liquidò il Pci di Bordiga, Gramsci e Togliatti, per scivolare verso più morbidi orizzonti socialdemocratici col nome del Partito Democratico della Sinistra e trent’anni fa, il 26 luglio del 1993, scompariva dalla scena la Democrazia cristiana, dopo quasi dieci lustri di onorato servizio, aprendo la via alla breve parabola di un Partito Popolare, onusto di passato, ma incompatibile col nuovo sistema elettorale maggioritario. Gli altri si arrangiarono come poterono, chi ostinandosi con orgoglio e caparbietà a contrastare l’onda- il caso di Bettino Craxi – chi restando annichilito in attesa di eventi che si verificarono, certo, ma con l’effetto tsunami.
Insomma: il quadro politico si mutò radicalmente, non solo per l’irrompere sulla scena di nuovi attori – uno su tutti, Silvio Berlusconi – ma per il ribaltamento dei canoni che l’avevano retto per quasi un cinquantennio, garantendo una “sostanziale” stabilità, al di là della successione dei governi, tutti in solida linea di continuità nel sistema copernicano con al centro la Dc e i suoi, più o meno docili, satelliti. Cominciò così il balletto delle leggi elettorali (cinque in 25 anni, un record mondiale!), il repentino affacciarsi e morire nel giro di un amen (che poi sarebbe una legislatura) di sigle di partito, l’avvento dei governi “tecnici” perché il maggioritario non riusciva a garantire un’alternanza come quella inglese (che, peraltro, non è più quella di una volta).
Nacque il vezzo di numerare le Repubbliche, alla maniera di De Gaulle: la Prima si chiuse con l’avvento del maggioritario e la scomparsa del voto di preferenza; la Seconda si aprì con Berlusconi, consolidata con l’inarrivabile “Porcellum”, la regola elettorale che cancellò per sempre il popolo sovrano come decisore della rappresentanza, consegnandone le chiavi ai capi-bastone; la Terza con l’avvento dei 5 Stelle, nel 2013, e il trionfo del populismo antagonista. Ognuna ha depositato qualcosa lungo lo strada, lasciando spizzichi di berlusconismo, la politica come brand da vendere ai consumatori-elettori, lacerti di populismo, ormai un evergreen, e vuoto a perdere dal punto di vista dei contenuti. A ben guardare sembra la caricatura dell’anaciclosi di polibiana memoria, celebrata specialmente nel suo tratto finale: dalla democrazia, come forma di governo “buona”, all’oclocrazia, il governo delle masse informi, sua declinazione “degenerata”.
In questo transito infinito verso l’entropia della politica si leva ogni tanto l’autorevole voce che ammonisce sull’ingessamento dei parlamenti e il loro contare meno di una carta di pepe nelle scelte legislative, di controllo del governo e di indirizzo politico. Verrebbe da dire: “Cara autorevole voce, te ne accorgi solo adesso? Dopo trent’anni di batti batti le manine al lavacro maggioritarista, di sostegno surrettizio all’ontologia anti-casta che avrebbe dovuto distruggere l’odioso privilegio, ma distrusse solo la dignità dei processi formativi dei politici e spianò la strada al populismo più hard, di serenate col mandolino ai governi forti, presidenzialismi o giù di lì, quelli che, come una vecchia pubblicità di un dopobarba di poche lire, “non devono chiedere mai”, facendo esecutivo e legislativo insieme, tanto il parlamento a che serve? Possibile che sia così difficile la ricostruzione del processo che negli ultimi tre decenni ha destrutturato l’istituto parlamentare senza vedere la ciliegina finale del taglio di deputati e senatori “un tanto al chilo”, tanto per quel che servono questi “mangiapane a tradimento” ne togli quattrocento o seicento, che vuoi che cambi?
Meno stipendi da pagare, questo fu il leitmotiv. D’altro quasi tutto il parlamento, salvo un manipolo di irriducibili, votò a favore di questa eutanasia della rappresentanza: e se i parlamentari stessi si ritengono inutili, volete che il popolo sovrano la pensi diversamente?
Allo stato dell’arte, dunque, siamo di fronte all’uroboro, quell’inquietante simbolo egizio del serpente che si mangia la coda e crea così un cerchio, un eterno ritorno. Insomma non si può spezzare per riprendere il cammino da qualche nuovo inizio. L’uroboro della politica e del Parlamento è la sua rappresentanza: per spezzare il cerchio il Parlamento dovrebbe fare nuove leggi elettorali per consegnare il diritto di voto nelle mani dei legittimi titolari: i cittadini, così come avviene per Comuni, Regioni, Parlamento europeo. Potrà mai farlo accettando di farsi giudicare dal corpo elettorale in concorrenza con altri candidati? Ne dubitiamo.
Così come dubitiamo che il Parlamento accetti di portare a compimento una legge che regolamenti il partito politico, esigendo che al suo interno sia rispettata la regola democratica, il percorso congressuale, il controllo sulle procedure di scelta delle candidature: così imploderebbero i partiti personali che hanno retto la lunga transizione nell’ultimo trentennio. E del pari siamo convinti che non potrà accadere che questo Parlamento proceda con le pur necessarie riforme adottando il sistema della convenzione costituzionale composta da un numero adeguato di rappresentanti eletti dal popolo col voto di preferenza e con regola proporzionale, perché le riforme non possono essere fatte brandendo le maggioranze di governo come fossero machete.
Potremmo continuare, ma arriva ferragosto e non apparirebbe cortese con i lettori in vacanza. Una sola cosa: è vero che Polibio in fondo è un ottimista e disegna un ciclo che, dopo il tempo degenerato ne apre uno buono nell’alternanza dei governi. Ma noi, che siamo affezionati alla vecchia democrazia, ci permettiamo di insistere sul “fattore popolo”: prendere coscienza di quel che accade, piuttosto che protestare disertando le urne, potrebbe cambiare le cose. Perché la politica non è mai stata così fragile come oggi e la pubblica opinione conta, eccome.
Buon ferragosto.