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Perché dobbiamo rafforzare le difese dei porti italiani. Scrive Pagani

Di Alberto Pagani

Il governo sta pensando a una riforma della portualità ma sembrano esserci troppe idee. Manca, invece, la consapevolezza della fragilità delle infrastrutture da attacchi fisici e cyber. Il commento di Alberto Pagani, docente e advisor nel settore della sicurezza, già parlamentare (dal 2013 al 2022) e capogruppo Pd in commissione Difesa e delegato nell’Assemblea parlamentare della Nato

Non si può certo dire che oggi il governo italiano non abbia idee per la riforma della portualità, semmai ne ha troppe. Sfortunatamente però avere troppe idee, in contraddizione tra loro, è come avere nessuna idea realistica e concreta.

Il leghista Matteo Salvini, ministro dei Trasporti, a cui compete in teoria il compito di avanzare una proposta di riforma, insieme al viceministro Edoardo Rixi (che da buon genovese è forse l’unico che conosce realmente la materia), ha evocato il modello pubblico spagnolo di Puertos del Estado, coordinato a livello centrale dallo Stato regolatore. Un altro leghista, Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le autonomie, ha proposto di adottare il modello nordeuropeo, che punta sull’autonomia, quindi sull’idea diametralmente opposta al centralismo immaginato dal suo ministro. Poi, come se non ci fosse già abbastanza confusione, ci si è messo pure Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e per le politiche del mare, con il suo piano del mare, che ipotizza che le autorità portuali abbiano la possibilità di fare impresa. Infine, Antonio Tajani, ministro degli Esteri, ha avanzato la proposta di privatizzazione dei moli, cioè esattamente il contrario. A questo punto non poteva mancare anche l’annuncio di Adolfo Urso, ministro dello Sviluppo economico e del made in Italy, che ha dichiarato di volersi occupare pure lui della materia.

In questo proliferare di proposte sembra che manchi una visione condivisa della questione e di quali priorità debbano caratterizzare l’ormai ineffabile interesse nazionale, evocato con vaghezza sempre crescente. Preoccupa soprattutto il fatto che non si tratta di un settore marginale, ma di una delle infrastrutture strategiche principali del Paese. Oltre i tre quarti delle merci per le nostre famiglie e imprese, che siano materie prime, semilavorati o prodotti finiti, entrano ed escono dall’Italia attraverso i porti, perché viaggiano via nave. Il sistema portuale è dunque un asset strategico per l’economia nazionale, per cui l’efficienza della portualità, che deve essere regolata e integrata nella filiera logistica dei trasporti, è un fattore importante per la competitività dell’intero Paese.

Attraverso i porti si rifornisce il sistema industriale di ciò che importa dall’estero, compresa l’energia, così come passa dai porti l’esportazione dei prodotti italiani per i mercati esterni. Si tratta di 500 milioni di tonnellate di merce ogni anno, per oltre 200 miliardi di euro di valore, che portano l’Italia a essere il secondo Stato europeo, dopo i Paesi Bassi, per la movimentazione di merci via mare. Se il governo non ha un’idea organica e condivisa per modernizzare il sistema portuale, la conseguenza più probabile è che si faccia molto rumore per nulla, perdendo solo tempo con vaneggiamenti inconcludenti, mentre quella più tragica è che si combini un pasticcio, giustapponendo regole contraddittorie e prive di coerenza sistemica, di efficacia reale e di utilità.

Al di là degli annunci e delle chiacchiere, oggi l’unica strategia sistemica reale è ancora quella indicata dal piano strategico nazionale della portualità e della logistica, adottato nel 2015 per intervenire sulla governance portuale, razionalizzando e accorpando le autorità portuali, che da 24 sono diventate 15, ridefinendo i compiti e le funzioni degli organi delle nuove autorità di sistema portuale, semplificando le procedure amministrative e ridefinendo il processo di pianificazione strategica in ambito portuale. Dunque il governo oggi non può che ripartire da lì, se intende aprire un confronto serio con tutto il settore marittimo portuale e poi coinvolgere il Parlamento nella modifica della legge 84 del 1994. Si tratta di una legge di sistema, molto importante, e sarebbe nell’interesse dell’Italia (e anche della maggioranza di Governo) modificarla con il consenso più ampio possibile degli operatori e delle forze politiche.

In realtà l’obiettivo di rafforzare gli strumenti di governo a livello centrale, di ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, istituendo un organismo nazionale con la competenza di attuare la politica portuale del governo e il coordinamento strategico del sistema, si può e si deve conciliare con l’aumento dell’autonomia amministrativa e finanziaria delle autorità di sistema portuale, evitando solo di introdurre nella materia portuale quelle forme di federalismo differenziato che produrrebbero danni al sistema nel suo insieme.

Inoltre, un confronto serio e ampio servirebbe per definire le tutele necessarie a valorizzare il lavoro portuale, per armonizzare la disciplina sulla sicurezza sul lavoro e assumere le iniziative conseguenti. Questo per regolamentare nel migliore dei un mercato del lavoro particolare, che si basa fondamentalmente su tre componenti: operatori terminalisti, compagnie portuali e imprese fornitrici di lavoro temporaneo. Lo stesso confronto aperto può produrre effetti fecondi anche per tutelare e la disciplina dei servizi tecno nautici, per attuare la regolamentazione dell’autoproduzione delle imprese armatoriali e per rafforzare la rete logistica portuale, condividendo gli investimenti finalizzati a questo obiettivo, come lo sviluppo del cold-ironing o gli incentivi all’intermodalità e al trasporto ferroviario.

Anche e soprattutto la soluzione delle questioni più complesse e spinose, come la revisione della disciplina delle concessioni, l’attuazione della legislazione nazionale sugli aiuti di Stato alle imprese armatoriali, la disciplina relativa al lavoro marittimo e la semplificazione finalizzata a evitare l’abbandono della bandiera nazionale, possono trarre giovamento da un coinvolgimento e da un consenso ampio delle forze politiche e dei portatori di interesse.

Infine, ci sarebbe anche un tema del quale pare non ci sia ancora la necessaria attenzione e consapevolezza politica: l’aggiornamento delle politiche e degli strumenti necessari a garantire la protezione di un sistema infrastrutturale critico di primaria importanza per la sicurezza nazionale.

È curioso che un governo di destra, che sventola sempre con enfasi la bandiera della sicurezza a ogni campagna elettorale, sembri totalmente inconsapevole della fragilità e dell’inadeguatezza delle misure di protezione delle infrastrutture portuali. I piani di sicurezza dei porti, che sono definiti dalle autorità di sistema portuale in accordo con il corpo delle capitanerie di porto, sono generalmente basati su concezioni obsolete e arretrate, sia dal punto di vista tecnologico che organizzativo. È previsto un impiego sovrabbondante di personale di vigilanza con funzione di controllo accessi, concretamente quasi inutili; questo personale è generalmente privo di un’adeguata e certificata formazione e addestramento per la prevenzione delle minacce specifiche alle infrastrutture critiche, come il terrorismo, e non è prevista alcuna procedura disciplinata per controllo delle sue effettive capacità operative.

Mentre le misure di sicurezza della rete aeroportuale e del trasporto aereo passeggeri sono state migliorate e corrette in modo importante dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre del 2001, quelle per la sicurezza portuale non sono state aggiornate (fatta eccezione per l’introduzione del piano Cristoforo Colombo) nemmeno dopo il gravissimo incidente del porto di Beirut del 2020, quando una gravissima esplosione ha ucciso 218 persone, ne ha ferite 7000 e lasciate senza casa 300.000, cioè i due terzi degli abitanti della città. Sembra quasi paradossale che a oggi i porti italiani non dispongano ancora di misure di prevenzione relative alle minacce allo spazio aereo, come i sistemi anti-drone, e che la protezione dei sistemi informatici da possibili attacchi cyber sia ancora inadeguata sia nella tecnologia sia nell’addestramento operativo del personale, che dovrebbe essere realmente capace di affrontare tempestivamente ed efficacemente, non soltanto sulla carta, un possibile incidente prodotto da azioni ostili. Sembra incredibile che per proteggere infrastrutture critiche tanto delicate e importanti, in un tempo oggettivamente più rischioso del passato, a causa delle tensioni geopolitiche derivate dalla guerra in Ucraina, ci si affidi ancora alla speranza che nessuno abbia serie intenzioni ostili nei confronti del nostro Paese.

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