Nella legge Delega sulla riforma fiscale si fa riferimento ai redditi da lavoro dipendente, e alla necessità di una riduzione del cuneo fiscale, da attuarsi in diversi modi. Li spiega Vincenzo De Luca, capo area fisco di Confcommercio
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 14 agosto 2023, della Legge 9 agosto 2023, n. 111, la Legge Delega al governo per la riforma fiscale, è legge dello Stato.
Come già evidenziato in altre circostanze, si tratta di una riforma complessiva del nostro sistema fiscale. Una riforma, cioè, che persegue, in maniera contestuale, l’impulso alla crescita attraverso la riduzione del carico impositivo, il contrasto di evasione ed elusione, la semplificazione degli adempimenti, la certezza del diritto.
Con specifico riferimento ai redditi da lavoro dipendente, si sottolinea l’importanza della previsione, contenuta nella Legge Delega, di una riduzione del cuneo fiscale, da attuarsi anche attraverso la revisione e la semplificazione delle disposizioni riguardanti le somme e i valori esclusi dalla formazione del reddito (c.d. “welfare aziendale”), salvaguardando le finalità della mobilità sostenibile, dell’attuazione della previdenza complementare, dell’incremento dell’efficienza energetica, dell’assistenza sanitaria, della solidarietà sociale e della contribuzione agli enti bilaterali.
Al riguardo, si auspica un adeguamento strutturale, e non emergenziale, della soglia di esenzione dei c.d. “fringe benefit”, oggi pari a 258,23 euro annui per dipendente, parametrandola all’attuale costo della vita.
In secondo luogo, è opportuno che il riordino delle disposizioni riguardanti le somme e i valori esclusi dalla formazione del reddito di lavoro dipendente avvenga unitamente alla razionalizzazione delle “tax expenditures”. L’obiettivo è quello di preservare la simmetria tra le spese deducibili e detraibili, di cui all’art. 15 del Tuir, e quelle che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, di cui all’art. 51, commi 2 e 3, ultimo periodo, del medesimo Tuir.
In tale ottica, sarebbe opportuno cogliere l’occasione per ristabilire ed aggiornare le somme e i valori che non concorrono a formare la base imponibile previdenziale, in attuazione del principio di armonizzazione della base imponibile fiscale con quella previdenziale. Nel tempo, infatti, le nuove voci che il legislatore ha escluso dalla base imponibile fiscale del lavoratore non sono state ritenute escluse da quella previdenziale, determinando una parziale asimmetria ed incoerenza di sistema.
Un ulteriore intervento di riforma, si spera possa riguardare la cd. “bilateralità”.
Gli enti bilaterali, istituiti dai contratti collettivi e costituiti dalle parti sociali firmatarie degli stessi, sono attori principali nel campo della protezione della sfera economica e personale del lavoratore. Tuttavia, la vigente normativa non consente di salvaguardare il fine assistenziale della bilateralità, in quanto i contributi versati a tali enti dai lavoratori iscritti sono fiscalmente rilevanti, non essendo applicabile alcun regime agevolativo oggi previsto. L’espressa esclusione dal reddito di lavoro dipendente dei contributi medesimi non solo garantirebbe la finalità di tale contribuzione, ma incentiverebbe altresì i datori di lavoro ad affidarsi all’importante azione di assistenza di tali enti.
Manca, altresì, nell’ordinamento una specifica disciplina in materia di prestazioni erogate dagli enti bilaterali ai lavoratori iscritti, attualmente considerate imponibili se inquadrabili in una delle categorie reddituali previste dal Tuir. Poiché l’azione degli enti bilaterali si innesta, necessariamente, nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente, si ritiene che il trattamento fiscale delle prestazioni erogate dall’ente bilaterale ai lavoratori iscritti debba essere in conformità all’art. 51, comma 2, del Tuir, in conseguenza dell’adesione all’ente medesimo da parte del datore di lavoro. L’introduzione di un trattamento fiscale adeguato alla rilevanza istituzionale degli enti bilaterali avrebbe il pregio di favorire gli investimenti operati dai datori di lavoro nel campo del “welfare aziendale”.
Parimenti, occorrerebbe riservare particolare attenzione anche all’assistenza sanitaria nell’ambito, tanto della contrattazione collettiva nazionale quanto nei piani di “welfare aziendale”, in quanto può svolgere un ruolo ancora più strategico a favore dell’intera collettività di contribuenti.
Incentivare l’inclusione anche nei piani di welfare delle prestazioni erogate dalla sanità integrativa, attraverso l’adesione dei lavoratori ai cc.dd. Fondi Sanitari sostitutivi del S.S.N., favorirebbe il ruolo strategico di integrazione di tali enti con il Sistema Sanitario Nazionale.
Il consolidamento della sanità integrativa anche per mezzo della leva fiscale – a partire dall’innalzamento delle soglie di non concorrenza al reddito dei contributi versati ai fondi sanitari dal datore di lavoro in favore dei propri dipendenti – consentirebbe un notevole risparmio di risorse per il sistema sanitario pubblico, che verrebbero liberate per garantire a tutti i cittadini un migliore e maggiore accesso ai servizi di assistenza sanitaria.
Al fine di ridurre il cuneo fiscale si potrebbe, altresì, intervenire sull’incentivazione della produttività.
Ad oggi, la legge n. 197 del 2022 (Legge di Bilancio per il 2023) ha ridotto, dal 10 per cento al 5 per cento, l’imposta sostitutiva sulle somme erogate sotto forma di premi di produttività, fermo restando il limite di 3.000 euro lordi annui delle somme ammesse all’agevolazione. Si auspica che si provveda ad un innalzamento di tale limite, considerati i molteplici effetti positivi discendenti dalla detassazione dei premi di produttività, sia come stimolo alla produttività del lavoro sia come incremento del potere di acquisto dei lavoratori (a vantaggio del gettito dello Stato).
Infine, sempre al fine di ridurre il cuneo fiscale e favorire l’adeguamento all’aumento dei prezzi, per il rinnovo o il cambio dei Ccnl più tutelanti per il lavoratore dipendente, si potrebbe proporre l’introduzione di una misura atta a detassare gli aumenti contrattuali derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale.
Nello specifico, in caso di rinnovo del contratto collettivo nazionale applicato o nel caso in cui il datore di lavoro abbia cambiato il contratto collettivo nazionale applicabile, la differenza positiva tra la retribuzione risultante dal rinnovo del contratto collettivo nazionale e la retribuzione antecedente al medesimo rinnovo non concorrerebbe a formare il reddito di lavoro dipendente.
L’auspicio, pertanto, è che tutte queste misure possano trovare concreta attuazione in sede di predisposizione dei decreti legislativi delegati da parte del Comitato tecnico per l’attuazione della riforma tributaria e, possibilmente – se le risorse finanziarie individuate con la prossima Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanze (Nadef) lo consentiranno – anticiparle già al 2024 con la prossima Legge di Bilancio.