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Russian money, cosa succede nella politica economica del Cremlino

Di Stefania Jaconis

Di fronte allo strisciante ma continuo deterioramento della situazione economica che si accompagna alla prosecuzione della guerra, nella leadership economica del Paese si sono oggi create due precise tendenze, contrapposte tra loro e probabilmente intente, in questa fase del confronto, a cercare alleati. L’analisi dell’economista Stefania Jaconis

Le ultime vicende monetarie della Russia, con le loro notevoli ricadute sui media locali e internazionali, segnalano una nuova fase nella gestione della politica economica russa, resa oggi più complessa dall’apparente rottura di quella “unità di fronte” che sino ad ora ne era stata un emblema.

In una situazione in cui non è dato criticare le linee strategiche della leadership, al centro della scena è adesso il rublo, la moneta “autocratica” che dall’ invasione su larga scala dell’Ucraina è stata gravata della responsabilità di ammortizzare gli effetti finanziari di una politica nel lungo periodo insostenibile. In modo quasi sovrumano la Banca Centrale russa, guidata da dieci anni da Elvira Nabiullina (abile governatrice e finora potentissima protégée di Putin) ha attuato una politica dei tassi spesso spericolata ma sempre ad hoc, riuscendo a coprire le percepibili e crescenti discrepanze macroeconomiche. Basti ricordare, fra i tanti, il vistoso rialzo del tasso di riferimento – fino al 20% – del febbraio del 2022, nel momento in cui bisognava fronteggiare l’effetto congiunto dello shock esogeno della guerra e della pesante fuga di capitali che ne è subito seguita. Pochi forse lo ricordano, ma il per alcuni, frenetici istanti il dollaro arrivò a toccare un cambio di 140 per poi attestarsi a meno di 60 nel giugno successivo. Merito delle scelte della Banca Centrale, che intanto, sotto l’egida della supercompetente governatrice, portava avanti audaci salvataggi e acquisizioni di banche private in difficoltà (di queste, solo alcune erano di proprietà di oligarchi “amici” del Cremlino…).

Ma il rialzo del tasso base del 15 agosto, dall’ 8.5 al 12%, presenta alcune peculiarità di un certo interesse: a) è il terzo per entità degli ultimi 10 anni; b) ha sortito finora effetti di scarso rilievo (alla chiusura della borsa di venerdì 18 il cambio con il dollaro era pari a un modesto 93,76), e infine, c) è forte il sospetto che ad adottare una misura così drastica la Nabiullina sia stata spinta da una sequela di interventi critici sul suo operato. Ultimo quello di Maxim Oreshkin, economista da poco eletto al rango di consulente di Putin, il quale ha contestato duramente la governatrice per non essere riuscita a garantire, “per il benessere della popolazione” un rublo “forte”. Tale critica è stata avanzata in modo pesante il 14 agosto: come noto, il giorno dopo si è tenuta la riunione straordinaria del Consiglio Direttivo della Banca, e si è decisa la stretta. L’entità del rialzo approvato in quella sede ha colpito la stragrande maggioranza degli analisti, in quanto non arriva a seguito di un nuovo shock – reale o monetario – che avrebbe colpito l’economia del Paese: lo sfondamento della soglia di 100 rubli per un dollaro rappresenta più che altro un fatto psicologico, per la dirigenza come per la popolazione russa.

In realtà, nello scontro si fronteggiano due diverse interpretazioni della catena di rapporti causali: la Banca Centrale russa ritiene che il cambio sia determinato da variabili reali, come il saldo dell’interscambio commerciale, e che su questo influiscano in misura crescente cose come l’effetto delle sanzioni sul fabbisogno di semilavorati, la necessità di acquistare armamenti e quella di ridirezionare i flussi commerciali. Coloro che vogliono il rublo forte, invece, non si pongono tanto il problema delle compatibilità economiche, ma danno per scontato che l’ economia russa è ormai un’economia “di guerra perenne”, e che quindi vada tenuto fermo il livello della spesa militare (variabile indipendente), anche a costo di ridurre il credito alle imprese “civili” e alle famiglie – delle quali verrebbe quindi ridotta la capacità di spesa e, in definitiva, il benessere. Non a caso, tra i sostenitori della nuova ortodossia vi è anche chi chiede l’imposizione di tasse pesanti sui beni di importazione.

È quindi evidente che, forse per la prima volta dall’inizio della guerra, stiamo assistendo a quella che si configura come una contrapposizione dura fra due visioni strategiche della politica economica da attuare nel Paese. E che sia “dura” lo si è visto subito: la campagna denigratoria degli ultimi giorni contro Nabiullina ha coinvolto i media più popolari, che hanno cercato di mobilitare la popolazione con una virulenza di stampo veterosovietico (sono anche affiorate – urlate – parole come “speculazione” e “galera”). E, in effetti, i punti del contendere sono ben più ampi di quanto possa apparire a prima vista, e sono svariati…

Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Prescindendo dalle variabili “reali” (cioè non monetarie) del sistema, che per statuto non sono di competenza della Banca Centrale russa (la quale solo nel 1992 ha conquistato una autonomia paragonabile a quella delle banche occidentali), il quadro delle compatibilità macro è molto semplice: una politica economica basata sull’espansione crescente della domanda data dalla spesa bellica non può che alimentare un “surriscaldamento” continuo del sistema, che ovviamente ingenera tensioni inflazionistiche. Soprattutto se, come avviene in Russia, per mantenere livelli di consenso accettabili si è scelto finora di non comprimere la spesa sociale, ultimamente appesantita dai costi di trasferimento dati dai benefit elargiti ai combattenti e alle loro famiglie, anche sotto forma di indennizzo per le morti dei soldati. A questo si aggiunga l’effetto delle sanzioni, che ormai colpiscono duramente soprattutto l’interscambio, e non può che derivarne un quadro di crescente disequilibrio macroeconomico.

Che i conti non tornassero lo si sapeva da tempo, e i dati sulla discrepanza fra entrate e uscite del Bilancio statale ne sono la prova evidente: come riporta il ministero delle Finanze, nel primo trimestre dell’anno le entrate pubbliche in Russia sono diminuite del 23%, a fronte di un aumento della spesa federale pari al 34%. In particolare, per questioni sia di quantità che di prezzo, si sono drasticamente ridotte, per ben il 45%, le entrate derivanti dalla vendita di gas e petrolio.

Ma c’è chi a questi dati non vuole guardare, e si concentra invece sulla tenuta della borsa e sulle rosee previsioni di crescita dell’Istituto di Statistica, che per il secondo trimestre stima un aumento del Pil pari al 4,9%. In questa visione, il quadro sarebbe turbato solo dalla politica monetaria “troppo morbida” seguita dalla Banca Centrale, come pure dalla sua imprevedibilità. Facile in questo modo spiegare sia la svalutazione del rublo che le sempre più palpabili tensioni inflazionistiche: non l’avventura della guerra, dunque (con i costi connessi), ma i tassi troppo bassi, incentivando a dismisura il credito bancario, hanno determinato un eccesso di domanda, sia delle famiglie che delle imprese, e il diffondersi di aspettative inflazionistiche.

In modo simile viene trattata la questione del tasso di cambio del rublo, e della sua estrema volatilità. A fronte di un altalenare continuo di valori del rublo (moneta che non è stata mai pienamente convertibile), la tolleranza manifestata finora dalla Banca Centrale per una valuta “debole” derivava anche dal fatto che, nel suo ruolo di debitore, lo stato ne traeva ovvi vantaggi. Infatti, un cambio “basso” significa che per ogni dato livello di esportazioni di prodotti energetici (i cui prezzi sono denominati in dollari) la Russia vede accrescersi la quantità di rubli che afferiscono alle casse pubbliche: una economista della Renaissance Capital, Sofya Donets, ha calcolato recentemente che una caduta di 10 unità nel cambio dollaro-rublo – ad esempio da 70 a 80 – comporta per le casse statali maggiori introiti per 1000 miliardi di rubli (oggi pari a circa 10 miliardi di dollari). Fino a un certo punto, però. Secondo alcuni quel “punto” era un cambio di 80-85 rubli per un dollaro – rublo più rublo meno. A giugno il viceprimoministro Andrei Belousov si è spinto a indicare una “comfort zone” di 80-90 rubli per un dollaro. Dopo di che però si presenta, ineluttabilmente, il nemico più potente delle economie in perenne surriscaldamento, e cioè l’ inflazione. Oltre che – e in modo particolare nel caso russo – la piaga ormai trentennale della fuga di capitali.

Guardiamo entrambi i problemi. È noto che da tempo in Russia l’inflazione reale supera di molto il tasso “desiderato” del 4%. Nabiullina lo riconosce apertamente, e nelle pubblicazioni della Banca si fa riferimento a valori attorno al 7% (secondo una rilevazione di agosto, addirittura, le aspettative delle imprese per i prossimi mesi si attestano su una cifra annua pari al 12%). L’ inflazione dunque in Russia è un male reale, e crescente. E veniamo al secondo problema. L’esplosione di tensioni inflazionistiche è ovviamente collegata, per canali sia reali che monetari, alle variazioni del tasso di cambio, in una misura che dipende dal livello di integrazione internazionale del Paese. Oggi, come noto, alla Russia sono posti limiti di varia natura per quanto riguarda la sua integrazione nell’ economia mondiale, sia sull’ interscambio che rispetto ai movimenti finanziari. Malgrado ciò, un problema di assoluta preponderanza oggi nel Paese è quello della fuga di capitali. Anche qui ci soccorrono i dati dell’ Ufficio Studi della Banca Centrale… e sono dati di tutto rispetto: per il 2022 la fuga di capitali stimata è pari a 239 miliardi di dollari, che rappresentano ben il 13% del Pil del Paese (l’ avventura del cuoco di Putin ha prodotto, in una sola settimana, una fuoruscita di rubli di entità pari a 43 miliardi di dollari!). È ovvio quindi che entrambi i problemi vanno affrontati – e su questo non si discute.

I teorici della nuova ortodossia monetaria, che al momento appaiono i più vicini al Cremlino, hanno avanzato in questi giorni soluzioni al problema “di tipo sovietico”, che vanno da una riduzione dell’indipendenza della Banca Centrale (che però dovrebbe in qualche modo “influire” sulla stabilità del tasso di cambio…) all’obbligo per le imprese esportatrici di cedere allo stato una quota importante dei ricavi in valuta: si è proposta una quota pari all’ 80% (già praticata in passato), ma il ministro delle Finanze, Siluanov, ha parlato addirittura del 90%… E poi, scendendo lungo una china la cui fine è pericolosamente vicina alla vecchia economia di piano, qualcuno ha avanzato la brillante proposta di requisire direttamente i profitti delle imprese che operano nel settore delle materie prime (in breve, se ne sono sentite molte…).

Per ora tutte le misure di intervento sui movimenti di capitale sono state accantonate, grazie anche all’impegno su base volontaria di molte imprese di mettere sul mercato una parte “sostanziosa” dei propri introiti valutari. Vedremo cosa accadrà. E vedremo anche se è vero, come pronosticato da molti, che la recente stretta monetaria avrà effetti molto limitati sul cambio del rublo (ieri risceso a 94,62). Sta di fatto che, di fronte allo strisciante ma continuo deterioramento della situazione macro che si accompagna alla prosecuzione della guerra, nella leadership economica del Paese si sono oggi create due precise tendenze, contrapposte tra loro e le cui forze sono probabilmente intente, in questa fase del confronto, a cercare alleati.


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