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Successo tattico, sconfitta strategica. Putin e la morte di Prigozhin secondo Lucas

Di Edward Lucas

L’eliminazione del fondatore del gruppo Wagner segna una nuova, forse l’ultima, fase del putinismo. Scrive Edward Lucas, non-resident senior fellow del Center for European Policy Analysis

Vladimir Putin è salito al potere grazie a massacri collettivi (bombe sui condomini) e guerre (Cecenia). Il suo regime uccide abitualmente rivali, critici e disertori in patria e all’estero. Tuttavia, l’uccisione di Yevgeny Prigozhin, il cui jet privato è esploso in volo la scorsa settimana, è diversa. A differenza di altre vittime, il fondatore del gruppo Wagner non era né un fallito né un aspirante tale. Era la quintessenza dell’insider, esempio della fusione tra affari, governo, propaganda e criminalità nella Russia moderna.

Prigozhin, come il suo impero economico, è stato creato da Putin. Il compito dell’ex cuoco era quello di servire il suo padrone, non di sfidarlo. Dopo il grave errore di calcolo dell’ammutinamento di giugno, la sua fine – morte o incarcerazione – avrebbe dovuto essere rapida e ordinata, non esitante e poi disordinata. Il ritardo di due mesi, seguito dall’incidente aereo, suggerisce che il leader russo abbia fatto male i suoi calcoli, abbia cambiato idea e sia poi ricorso a trucchi teatrali per recuperare il suo prestigio.

Il disagio va oltre Prigozhin. Il licenziamento del generale Sergei Surovikin come comandante delle forze aeree fa parte di un più ampio programma di purghe all’interno dell’esercito nei confronti di persone che potrebbero aver simpatizzato o collaborato con il fallito colpo di Stato. Nel mirino di Putin ci sono anche i sostenitori dei putschisti, gli ultra-patrioti che ritengono che il Cremlino abbia condotto una guerra troppo debole. Igor “Strelkov” Girkin, uno spaccone ex ufficiale dell’FSB, è stato arrestato e accusato di “estremismo” il mese scorso. Questo giro di vite offre il contesto perfetto per regolare i conti e scaricare le colpe. È una grave distrazione dalla guerra in Ucraina. E corrode le radici del potere di Putin.

Il più grande risultato del leader russo è dato dalla combinazione di limitate libertà personali e prevedibilità. Ai russi possono non piacere le regole, ma sanno quali sono. Se si sta al gioco, l’oggi sarà come ieri, il domani uguale e si potrà andare avanti con la propria vita. Questo può sembrare banale per gli standard di altri Paesi. In Russia, con la sua storia di assolutismo e arbitrio, questa ordinarietà è rara e apprezzata. In effetti, gli ultimi 25 anni sono stati il periodo più lungo di “normalità” – definita, sottolineo, secondo gli standard desolanti della Russia – nella storia del Paese. Le violente turbolenze incrinano questa eredità.

Inoltre, danneggiano la percezione di onniscienza e onnipotenza che sostiene l’autorità di Putin. Quando queste illusioni si rompono, il potere in Russia è in discussione. Putin appare ora irregolare e fuori dal mondo.

Il punto cruciale arriverà alle elezioni presidenziali del 2024, quando Putin avrà bisogno di un improbabile 80% dei voti per eguagliare i suoi precedenti trionfi. Dovrebbe essere una formalità. Ora sembra pieno di insidie. La scadenza alza anche la posta in gioco nelle manovre politiche prima di allora. Se si pensa che il capo stia vacillando sempre di più, diventa pericoloso aspettare. A nessuno piace chi perde, quindi si punta su altri vincitori più probabili. Questo significa più paranoia, più complotti, più eserciti privati.

L’uccisione di Prigozhin, in breve, è stata un successo tattico per Putin, ma una sconfitta strategica. Il leader russo ha dimostrato di poter ancora esercitare il potere in modo spietato. Ma lo ha fatto in un modo che danneggia il sistema di regole, pene e relazioni che sostiene il suo governo. Una volta la violenza era una moneta politica ai margini del potere russo; ora ne è al centro.

Benvenuti, quindi, nella prossima e forse ultima fase del putinismo. Questa è iniziata con la promessa di stabilità e modernizzazione, per poi evolversi in un palese anti-occidentalismo, militarismo e imperialismo neo-sovietico. Le carote erano molte e i bastoni meno. La minaccia della violenza era più efficace del suo uso. In questa nuova fase, le parole d’ordine sono vuote, l’economia ristagna, la vittoria è lontana e gli amici (in particolare la Cina) sono impazienti e scettici. La forza è l’ultima e forse l’unica risorsa di un leader in crisi.



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