In Europa serpeggia un sentimento ben poco amico dell’industria. Il che è un problema per l’Italia e anche per la Germania. Anche se forse un po’ meno. Il commento di Massimo Medugno
Un’estate rovente non solo per il clima, ma anche per le polemiche sollevate da dichiarazioni di persone autorevoli. Possono, quindi, essere sfuggite (e scusate l’artificio retorico) quelle contenute in una lunga intervista realizzata da L’Echo il 4 agosto scorso, il giornale economico belga, a Pierre Régibeau in occasione del suo pensionamento. Pierre Régibeau, sconosciuto ai più (forse a tutti) è un belga di Liegi, ex braccio destro della vice presidente e Commissaria europea alla concorrenza la danese Margrethe Vestager. Come capo economista della Direzione Concorrenza (la DG4) Régibeau, è stato uno degli architetti della politica economica e industriale europea degli ultimi anni ed ha notevole curriculum vitae.
Al giornalista che gli faceva notare le enormi preoccupazioni dell’industria dell’acciaio che contesta l’approccio estremista della Commissione e del Parlamento europeo e che denunciava una progressiva deindustrializzazione del continente foriera di impoverimento collettivo, Régibeau rispondeva: “Salvo ragioni di sicurezza non c’è alcuna valida ragione per voler mantenere alcune attività economiche in Europa. Riguardo alle preoccupazioni degli industriali, si tratta di allarmismi di gruppi privati che perseguono esclusivamente i loro propri interessi.”
Alla domanda del giornalista sul pericolo che l’industria di base europea sparisca davvero la risposta era la seguente: “Se questo tipo di industrie spariscono va bene così perché ciò significa che deve accadere. A che fine produrre in Europa dell’acciaio se noi possiamo comprarlo tre volte meno caro in Indonesia?” e ancora: “Perché fabbricare torri eoliche in Europa quando le si possono comprare due volte meno care altrove? L’Europa dovrebbe ringraziare questi paesi per il regalo.” C’è da rimanere basiti.
Ed è troppo facile attribuire a questo approccio quel sentimento antindustriale che emerge nelle diverse politiche europee, ad esempio, in materia di decarbonizzazione o in materia di revisione della normativa imballaggi (e di cui abbiamo parlato più volte su questo sito).
Anche chi non è incline a credere a questo atteggiamento antindustriale di parte della Commissione Ue, si vede “smentito” in materia autorevole.
Se si pensa alla Ceca (e questo ce lo facevano studiare anche sui sussidiari delle elementari), si comprende bene quale è sia stata una della scintilla della Ue: il carbone e l’acciaio, quindi, l’industria di base. Ovviamente, vi sono altre industrie di base, oltre a quelle citate, ma appare evidente che l’obiettivo, fin dall’inizio, sia stato quello di dare al continente europeo una prospettiva di pace e sicurezza, anche sotto il profilo dello sviluppo economico e, quindi, industriale. Se pensiamo, poi, a quanto è successo durante la pandemia e quanto sta ancora accadendo con il conflitto in Ucraina, quelli contenuti nell’intervista appaiono “pensieri in libera uscita”.
Le parole di Règibeau sono state fortemente criticate dai sindacati europei di settore, che hanno chiesto alla Commissaria Vestager se esse rappresentino anche il punto di vista del suo team. La vicenda ha avuto eco in Italia grazie ad un articolo di Antonio Gozzi su Il Riformista del 10 agosto, con il quale il presidente di Federacciai, stigmatizzava l’atteggiamento antindustriale di Regibeau e dell’intera Commissione e la necessità che vengano avviate politiche a favore dell’industria. A questo aggiungeva l’invito all’Italia di fare di più e meglio, in termini di presenza e di risorse umane, a livello Ue.
Considerazioni che non possono che essere condivise (ed estese anche ad altri Stati membri, in quanto non basta avere un buon curriculum in molti casi… ma bisogna studiare sui sussidiari italiani evidentemente). Tutto qui? No, perché più o meno negli stessi giorni di agosto la Vestager annuncia che vale 6,5 miliardi di euro il meccanismo a favore degli energivori tedeschi approvato dalla Commissione Ue e che Berlino ha messo a punto per evitare il rischio di carbon leakage a seguito dell’introduzione del nuovo sistema emissions trading.
E qui c’è il rischio di un evidente blackout. Da una parte l’atteggiamento di Règibeau e dall’altra, quello opposto, della Germania che gli uffici della Vestager (quelli di cui faceva parte Règibeau) approvano con solerzia (senza che al momento la decisione ufficiale sia pubblicata sul sito). Nel frattempo, in Italia, si sono aperte le procedure (21 agosto) per le compensazioni dei costi indiretti per la CO2 pari a 150 milioni.
I settori di base stanno perdendo di competitività. Questo è evidente rispetto ad altre aree, come ad esempio gli Usa e l’Asia.
In queste aree il “caro energia” ha impattato meno, come le sanzioni contro la Russia. In Francia c’è una misura di electricity release da energia nucleare a favore dell’industria, mentre la Germania ha varato il meccanismo di cui sopra. Si tratta, in tutti i casi sopra elencati, di una “concorrenza leale”, cioè regolamentata dagli Stati e senza violare Trattati europei e norme sulla concorrenza. Come Italia non possiamo permetterci di non avere un quadro competitivo per lo meno uguale a quello di Germania e Francia, neanche per un giorno.
Un approvvigionamento energetico a costi competitivi e una politica di decarbonizzazione costituiscono due facce della stessa medaglia.