La presenza di Putin è un deterrente per i vertici europei. Ma il tabloid cinese Global Times ribatte: alcuni di loro non sono stati neppure invitati. Un favore al leader ma anche a loro
Fervono i preparativi per il terzo Belt and Road Forum, che celebrerà il decennale dal lancio dell’iniziativa infrastrutturale (ed espansionistica) inaugurata dal leader cinese Xi Jinping meno di un anno dopo il suo insediamento. L’appuntamento è a ottobre. Tra i leader annunciati c’è Vladimir Putin. Nei giorni scorsi sia Aleksandar Vučić, presidente serbo, sia Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (una delle entità della Bosnia-Erzegovina), hanno fatto sapere di essere pronti a incontrare il leader russo.
Che però, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina, è un potente deterrente per I leader europei. Nelle scorse settimane il Wall Street Journal aveva riportato che né il presidente francese Emmanuel Macron né il cancelliere tedesco Olaf Scholz erano intenzionati a partecipare. E neppure Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri italiano, il cui governo dovrà decidere entro fine anno se rinnovare il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (Via della Seta) o se fare un passo indietro rispetto alla decisione dell’esecutivo gialloverde guidato da Giuseppe Conte che nel 2019 portò alla Cina il primo Paese G7 ad aderire al programma. Non ci sarà neanche la Svizzera, notoriamente neutrale e che è stata rappresentata dal presidente nei due forum precedenti. Né la Grecia, che ha aderito alla Belt and Road Initiative nel 2018.
C’entra Putin. Ma non solo. Le assenze hanno a che fare anche con un nuovo contesto internazionale alimentato dalla pandemia Covid-19 e dalla guerra in Ucraina. “Negli anni passati, i Paesi europei si sono avvicinati alla [Belt and Road Initiative] con spirito aperto”, ha dichiarato Noah Barkin, esperto di Europa e Cina al Rhodium Group, citato dal Wall Street Journal. Ora la narrazione è cambiata e il programma è visto in buona parte, dice Barkin, come “un veicolo per diffondere l’influenza cinese all’estero”.
Al quotidiano americano ha risposto il Global Times, tabloid nazionalista, organo della propaganda del Partito comunista cinese. Ha scritto che la Cina non ha invitato i leader di alcuni Paesi sviluppati citati nei resoconti dei media occidentali, per cui la conclusione che essi stiano “evitando di partecipare” non regge.
Potrebbe essere un favore da parte di Pechino ai leader europei: non vi abbiamo invitato così non dovete dirci di no vista la presenza di Putin. Ma potrebbe anche essere un favore di Pechino a Pechino, considerato quanto osservato da Barkin e l’importanza per il Partito comunista cinese di inviare segnali di compattezza e forza tanto all’esterno quanto all’interno in un momento economicamente e politicamente complicato.
E in questo caso l’Italia ha una posizione particolare, considerati l’avvicinarsi della scadenza per la decisione sul memorandum del 2019 e il lavoro diplomatico in corso per trovare tempi e modi per annunciare il non rinnovo e per organizzare la missione di Meloni a Pechino. Né l’Italia né la Cina sembrano aver interesse ad alzare i toni. Roma punta ad avere, come Parigi e Berlino, “buone relazioni, anche in ambiti importanti, con Pechino senza che necessariamente queste rientrino in un piano strategico complessivo”, come aveva spiegato Meloni in un’intervista al quotidiano Il Messaggero. Ecco perché sta giocando la carta commerciale per evitare tensioni politiche. A Pechino, invece, potrebbe non essere gradita la presenza al Belt and Road Forum, che come detto celebra i primi dieci anni del grande piano, del leader dell’unico Paese G7 ad avervi aderito ma in predicato a uscirne.