Per valutare la prospettiva sulle opzioni per l’Italia, va tenuto conto di tre aspetti: il contesto geoeconomico globale in movimento, il peso sistemico del “fattore Cina”, l’azione degli Stati Uniti che puntano a orientare una diversa fase della globalizzazione a proprio vantaggio. Cosa dice il documento realizzato da Aspen Institute Italia, Cespi, Ecfr, Iai e Ispi per il ministero degli Esteri
Il valore simbolico del memorandum d’intesa tra Italia e Cina sulla Via della Seta, che peraltro non è vincolante, è “comunque un costo per l’Italia”, che l’anno prossimo sarà presidente di turno del G7, “che avrà molto a che fare con la questione cinese”. È quanto si legge nel rapporto “Geoeconomia e sicurezza – implicazioni e scelte per l’Italia” realizzato da Aspen Institute Italia, Cespi (Centro Studi di Politica Internazionale), Ecfr (European Council on Foreign Relations), Iai (Istituto Affari Internazionali) e Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) all’interno del progetto di “Comunità italiana di Politica Estera”, promosso dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e portato avanti dai principali centri studi italiani su temi relativi a specifiche problematiche di politica estera.
Ecco alcuni passaggi della parte dedicata alle implicazioni della competizione tra superpotenze per l’Europa e per l’Italia.
[I]l confronto economico tra i due grandi attori ha il suo baricentro nel settore delle tecnologie digitali e dual-use (civile-militare). È qui che si concentrano gli sforzi reciproci per sopravanzare l’avversario, partendo dal presupposto che il predominio tecnologico è la chiave del potere in tutti gli altri settori – e dunque il cuore dell’interesse nazionale.
L’implicazione per la UE, e inevitabilmente anche per l’Italia, è che si presentano due rischi molto concreti: da un lato, il rischio di trovarsi in posizione reattiva e difensiva rispetto ad iniziative americane, al più con una possibilità di coordinamento ex post (come a seguito dell’IRA); dall’altro, il rischio di subire ritorsioni cinesi nel caso in cui si segua troppo da vicino la linea americana.
A fronte del primo rischio, l’Europa ha interesse ad evitare una massiccia relocation industriale delle proprie aziende negli USA, che è probabile soprattutto nei settori a più alta intensità energetica; per farlo, si dovrà rilanciare la possibilità di un accordo transatlantico, aggiornato al nuovo contesto di sicurezza internazionale. Al tempo stesso, l’Europa dovrà investire nella propria competitività e precisare i contorni del de-risking – operazione che è stata in effetti avviata in giugno con la Comunicazione congiunta della Commissione sulla “European economic Security Strategy”, che elenca quattro tipi di rischi da cui tutelarsi:
“Risks to the resilience of supply chains, including energy security; risks to the physical and cyber-security of critical infrastructure; risks related to technology security and technology leakage; risk of weaponization of economic dependencies or economic coercion”.
È chiaro che per rendere operativa una strategia del genere gli attori privati dovranno disporre di parametri più precisi e puntuali in grado di orientare le loro scelte di investimento, partnership, ricerca di mercati.
Si tratterà comunque di definire una strategia di sicurezza economica che tenga conto dell’interesse a mantenere le posizioni europee sul mercato cinese ma anche a limitare i pericoli di overdependence in settori specifici. Il problema è che, per ora almeno, non esiste una politica europea unitaria verso la Cina. Al mercantilismo ancora prevalente da parte tedesca, si somma l’ambizione francese a vedere l’Europa come una sorta di “terza forza” rispetto alla competizione Usa-Cina: posizione che un Paese come l’Italia, con la sua forte propensione atlantica, non può condividere.
Se però, pur con i notevoli limiti, Parigi e Berlino hanno quantomeno formulato le loro China policy, mancano in Europa altre voci, limitando così fortemente il confronto e impedendo la formazione appunto di una visione comunitaria.
A fronte del rischio di ritorsioni (più o meno esplicite) da parte di Pechino, si tratterà di sviluppare un approccio strategico e dunque molto selettivo per valutare le opportunità di accordi con aziende cinesi, puntando anche sulla forza negoziale aggregata della UE, e quindi rinunciando (naturalmente, su base di stretta reciprocità) a una sorta di competizione al ribasso tra i Paesi europei.
L‘Italia può farsi promotrice di una visione più ampia delle politiche di bilancio che incorpori pienamente l’esigenza di una politica industriale/tecnologica europea a tutto tondo, basata su un Fondo Comune (comprensiva di forme di sussidi e incentivi comuni europei). Naturalmente, ciò richiede l’attiva collaborazione dei maggiori partner e dovrà superare ostacoli sia politici che tecnici. Il possibile rientro nei parametri del Patto di Stabilità e Crescita prefigura in effetti una discussione sull’intero modello di crescita dell’Unione, che va messo in relazione proprio al contesto globale appena descritto nelle sue grandi linee – rispetto ai tassi di inflazione, alle dinamiche del debito pubblico e privato, alle politiche economiche e industriali dei maggiori attori internazionali. Vi sono le condizioni generali per un salto di qualità da parte della UE, ma il consenso per vere azioni di policy va costruito e coltivato.
Stringendo la prospettiva sulle opzioni per l’Italia, va tenuto conto dei tre aspetti sopra evidenziati: un contesto geoeconomico globale in movimento, con elementi di forte volatilità; il peso sistemico del “fattore Cina”, che però è esso stesso condizionato dai dati strutturali dell’economia globale e dalle dinamiche strategiche messe in moto proprio dalle scelte internazionali della sua attuale leadership; l’azione degli Stati Uniti, che puntano a orientare una diversa fase della globalizzazione a proprio vantaggio.
Questi fattori influenzeranno il contesto in cui l’Italia dovrà affrontare il nodo del rinnovo o meno del Memorandum of Understanding con la Cina del marzo 2019, una scelta che avrà comunque dei costi. Politici in caso di rinnovo, economici in caso di denuncia del Trattato. In teoria, l’uso estensivo della golden power potrebbe di per sé dimostrare il grado di tutela che l’Italia è ormai in grado di esercitare rispetto ai tentativi cinesi di acquisire infrastrutture critiche in Europa; mentre appare ormai confermata l’attenzione italiana per il controllo di tecnologie critiche. Resta che il valore simbolico di un Memorandum peraltro non vincolante è comunque un costo per l’Italia, che si appresta ad esercitare la presidenza di un G7, nel 2024, che avrà molto a che fare con la questione cinese.
Il rapporto integrale si può leggere qui.