Serve concretezza e una visione politica ben chiara, soprattutto in determinati settori-chiave, per evitare di finire sotto controllo di regimi stranieri, come abbiamo imparato dalla dipendenza energetica da Mosca. Sapendo che la minaccia da Pechino è esponenzialmente superiore. L’intervento di Marco Zanni, europarlamentare della Lega e presidente del gruppo Identità e Democrazia, al Parliamentary Intelligence-Security Forum
Il tema degli investimenti esteri è da tempo oggetto di ampie discussioni all’interno del Parlamento europeo, al quale io stesso ho dedicato molta attenzione sin dall’inizio del mio primo mandato nel 2014. In un mondo globalizzato come quello attuale, con economie fortemente interconnesse e un ruolo sempre più attivo dei Paesi emergenti, è doveroso riflettere sugli effetti e sui potenziali rischi in cui possiamo incorrere, soprattutto con i continui e drastici cambiamenti nell’assetto geopolitico che stiamo vivendo negli ultimi anni, abbiamo assistito alla necessità da parte di governi e di parlamenti di analizzare in maniera più critica e puntuale il tema degli investimenti esteri, nell’ottica di valutarli nell’ambito della sicurezza nazionale. Nello specifico, la crisi del Covid nel 2019 e soprattutto l’aggressione russa all’Ucraina hanno evidenziato quanto debole (o anacronistico) fosse stato il modello di globalizzazione perseguito negli ultimi 30 anni: errori di visione commessi dalla politica nei decenni passati che purtroppo in Ue ancora qualcuno fatica a capire.
Analizzando i rischi associati agli investimenti diretti esteri (FdI) in Europa, è necessario fare alcune considerazioni iniziali. Prima di tutto quando si parla di rischi associati agli FdI in Europa, sappiamo tutti che c’è un convitato di pietra, la Cina; anche se, a causa del rallentamento della crescita, di restrizioni volute dal regime di Pechino, e di contromisure prese dai Paesi europei. Gli FdI cinesi in Europa sono in discesa, negli ultimi 20 anni i cinesi hanno effettuato FdI in Europa per circa 300 miliardi di euro, per la quasi totalità concentrati nelle economie maggiori: Regno Unito, Germania; Francia e Italia. Tuttavia, questa è solo la parte ufficiale o meglio tracciabile del quadro, perché molto spesso questi investimenti vengono fatti attraverso complesse strutture societarie per cui risulta complesso risalire alla nazionalità del beneficiario finale.
La seconda considerazione è che in questi anni sono cambiati gli obbiettivi sottostanti alla strategia di investimento in Europa da parte dei cinesi: se in una prima fase gli obiettivi di queste operazioni erano principalmente la volontà di appropriarsi di tecnologie avanzate e l’espansione dei mercati di sbocco, la seconda fase, associata invece alla volontà di acquisire risorse scarse o incrementare l’influenza geopolitica cinese, ha incrementato i rischi per la sicurezza nazionale e l’autonomia industriale dei Paesi europei.
Di fronte a questa nuova minaccia, governi e parlamenti hanno sentito la necessità di dotarsi di strumenti più ampi ed efficienti per analizzare i rischi associati agli FdI e per intervenire in caso di minaccia per la sicurezza nazionale.
Negli ultimi anni sono stati principalmente due gli strumenti implementati dall’Ue e dagli stati membri per ridurre i rischi associati agli FDI di stati non democratici: la prima categoria di strumenti rientra nel campo di uno screening preventivo di operazioni afferenti a settori specifici che rappresentano una criticità per la sicurezza e l’autonomia, come le tecnologie legate alla difesa ad esempio. La seconda categoria riguarda la definizione di poteri di intervento speciale da parte dei governi per porre condizioni o bloccare acquisizioni in settori critici, cioè il cosiddetto golden power.
Nella prima categoria ricade il framework costruito dagli stati Ue e dalla commissione europea che obbliga la segnalazione preventiva di operazioni in settori strategici dando la possibilità agli esecutivi di valutare l’appropriatezza di certi tipi di proposte o accordi. Tuttavia, questo strumento, seppur utile, rimane uno strumento di pura analisi e scambio di informazioni, senza poteri di intervento diretto. Motivo per cui molti Paesi si sono dotati di strumenti del secondo tipo, costruendo o migliorando gli schemi che affidano ai governi poteri speciali di intervento in caso di minaccia alla sicurezza nazionale. In questo l’Italia è stata pioniera a livello europeo, con una legislazione sul golden power stabilita nel 2012 e rafforzata in maniera significativa nel 2022. Per capire la portata del problema e i rischi associati, basti pensare che dal 2022 sono decine le operazioni poste sotto condizionalità o addirittura bloccate dal governo italiano in settori strategici per la sicurezza del Paese.
Nel 2019 la Commissione europea ha presentato il Green Deal, un pacchetto di provvedimenti volti a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Sebbene l’obiettivo di migliorare l’impatto dell’uomo sull’ambiente sia condivisibile, io e i miei colleghi di partito combattiamo quotidianamente per cambiare il metodo per questa transizione.
Tuttavia, è evidente che ci sia ancora molto lavoro da fare per convincere tutti i policymakers europei a non abbassare la guardia su questi rischi e ad adottare strategie di lungo termine coerenti con gli obiettivi di sicurezza nazionale e autonomia strategica. Non è un mistero che gli attuali indirizzi politici della Commissione europea, con la struttura decisa per l’enorme progetto di transizione industriale del Continente denominato green deal, comporteranno un aumento della presenza cinese nel nostro continente. Nei giorni scorsi, per esempio, i giornali italiani sottolineavano il boom nell’esportazione di auto elettriche dalla Cina, necessarie a soddisfare gli obiettivi della strategia green dell’Unione europea. Medesima dinamica che possiamo riscontrare nel settore delle energie rinnovabili, in quello delle materie prime, e nella logistica, con la presenza oramai consolidata dei grandi operatori cinesi nei nostri porti.
Sicuramente oggi c’è una consapevolezza maggiore di questi rischi e si sta iniziando, seppure con molte difficoltà, una strategia volta a contrastare una presenza aggressiva e dannosa dal punto di vista economico e geopolitico. Serve concretezza e una visione politica ben chiara, necessaria a tutelare gli interessi nazionali, soprattutto in determinati settori-chiave, per evitare di finire sotto controllo (e ricatto) di regimi stranieri, come abbiamo imparato a nostre spese dalla dipendenza energetica dalla Russia. Ed è bene tenere sempre presente che la minaccia cinese è esponenzialmente superiore a quella che ha rappresentato la dipendenza dal regime russo.