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Italia-Cina. No alla Via della Seta, sì al partenariato strategico

La missione di Tajani a Pechino chiude di fatto l’esperienza del memorandum firmato da Conte. Ora entrambe le parti sono impegnate a rilanciare la relazione bilaterale senza traumi. Mattarella in visita a inizio 2024

La “pagina piuttosto brillante” di cooperazione tra Italia e Cina nell’ambito della Via della seta “ha portato grandi risultati” ma nel futuro i due Paesi dovranno “consolidare e approfondire il partenariato strategico globale”.

Le parole di Wang Yi, capo degli esteri del Partito comunista cinese e ministro degli Esteri (che pur non ha risparmiato qualche frecciata), nel suo intervento al Comitato governativo Cina-Italia co-presieduto assieme ad Antonio Tajani, omologo e vicepresidente del Consiglio, certificano due cose. Prima: Roma ha ribadito a Pechino che il memorandum d’intesa sulla Via della Seta non ha dato i risultati sperati in questi quattro anni e mezzo dalla firma come suggerisce il fatto che il deficit commerciale a favore della Cina non è stato pareggiato ma è anzi fortemente aumentato (dal 2019 al 2022 è più che raddoppiato). Seconda: Pechino, vuoi per la compattezza mostrata e l’attenzione sulla resilienza economica mostrata dal G7, vuoi per gli strumenti di prossima adozione da parte dell’Unione europea, vuoi per questioni di opportunità alla luce di una situazione economica non rassicurante e della necessità di non gettare ombre sul Belt and Road Forum che a ottobre celebrerà i primi 10 anni dal lancio dell’iniziativa-faro del leader Xi Jinping, tra una reazione dura a suon di misure coercitive e una più diplomatica, ha scelto la seconda.

LA LINEA SOFT

Già prima degli incontri politici di Tajani a Pechino il Partito comunista cinese aveva dato segnali di una nuova postura. Il Global Times, il tabloid nazionalista in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, ha pubblicato un lungo articolo sulla Via della Seta e il rapporto Italia-Cina. “Potrebbe esserci qualche impatto se il governo italiano decidesse di non rinnovare il patto: per esempio, non ci sarà la stessa garanzia sugli investimenti e la possibilità di stabilire le relative regole”, ha osservato Wang Yiwei, a capo dell’Istituto per gli affari internazionali della Renmin University. “Ma questi impatti non rappresenteranno una battuta d’arresto fondamentale per le relazioni Cina-Italia”, ha aggiunto.

Cui Hongjian, direttore del dipartimento di studi europei presso il China Institute of International Studies, ha puntato il dito contro gli Stati Uniti: “In una certa misura, il governo Meloni ora vuole usare il suo cosiddetto ritiro dalla Bri come prova del suo ritorno alla politica occidentale tradizionale. Chiaramente, c’è una significativa influenza politica e pressione da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali”. Ma questa narrazione era stata prevista e anticipata nelle ore precedenti da Tajani che, sostenuto poi pubblicamente dal ministro della Difesa Guido Crosetto, aveva sottolineato l’importanza dell’alleanza con gli Stati Uniti ma anche di una forte autonomia italiana sui dossier di interesse nazionale (come la Via della Seta, appunto).

E ORA?

L’auspicio di Tajani e di Wang ora è lo stesso: Italia e Cina devono consolidare e approfondire il partenariato strategico globale, lanciato nel 2004 dall’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e dall’allora primo ministro cinese Wen Jiabao. I contatti tra Xi e Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, “hanno fissato l’orientamento delle relazioni e consolidato la fiducia reciproca”, ha rimarcato il ministro cinese nel suo discorso finale.

La sottolineatura sulla fiducia è un passaggio cruciale, visto che nelle scorse settimane la diplomazia cinese aveva avvertito l’Italia che un mancato rinnovo del memorandum d’intesa avrà potuto causare un deterioramento di essa. Ma, come detto, Pechino sembra aver cambiato linea. E così vengono colti in fuorigioco quelli che avevano brandito lo spettro dell’azzeramento della fiducia in caso di morte dell’intesa sottoscritta nel 2019 dal governo gialloverde di Giuseppe Conte. Tra questi c’era l’ambasciatore in Italia Jia Guide, inviato a inizio anno a Roma con la Via della Seta in cima all’agenda.

LE PROSSIME VISITE IN CINA

“Apriamo oggi una nuova stagione per il partenariato strategico, che intendiamo rilanciare a 360 gradi approfondendo tutti gli ambiti del nostro rapporto bilaterale”, ha detto il ministro italiano che durante un successivo punto stampa ha anche evidenziato che “il partenariato strategico è molto più importante della Via della Seta”. E, ha aggiunto, “a suggellare questa amicizia e collaborazione concreta sui temi emersi durante questi lavori” il presidente Mattarella sarà in visita in Cina il prossimo anno, probabilmente già nei primi giorni di gennaio in occasione dei 700 anni dalla morte di Marco Polo. Tajani ha anche confermato le visite nel prossimo futuro della presidente Meloni, e di Daniela Santanché e Annamaria Bernini, ministre rispettivamente del Turismo e dell’Università.

COMMERCIO E DIFFERENZE

Gli scambi commerciali rimangono prioritari per l’Italia, che però sembra voler marcare una certa distanza tra commercio e sicurezza, in linea con il de-risking concordato in sede G7, Nato e Unione europea. Roma “vuole avere relazioni più che positive con la Cina, che rappresenta un mercato di grande opportunità”, ha spiegato Tajani. “Vogliamo incrementare l’interscambio tra i nostri Paesi, pur avendo delle differenze e pur essendoci delle questioni da risolvere”, ha aggiunto. “Ma ritengo che le relazioni tra Italia e Cina siano di grande importanza per entrambi i Paesi”.

“La Cina è pronta a importare maggiori quantità di prodotti italiani e fornire agevolazioni alle imprese italiane che vogliono investire in Cina con misure concrete”, ha dichiarato Wang. “Da parte nostra auspichiamo da parte italiana che le imprese cinesi che operano in Italia non vengano discriminate”, ha detto ancora. Il riferimento – con tanto di ribaltamento della realtà viste le note restrizioni alle imprese straniere che operano in Cina – sembra essere sia al recente maggior utilizzo del Golden Power da parte dei governi italiani (ultimo e più improntate caso riguarda Pirelli) sia ai colossi della tecnologia, a partire dai fornitori del 5G (Huawei e Zte) accusati da alcuni governi occidentali di essere potenziali strumenti di spionaggio per il regime cinese.

Dopo il rapporto con cui il Copasir, a fine 2019, aveva invitato il governo a prendere in considerazione l’esclusione dei fornitori cinesi dall’infrastruttura 5G, i vari esecutivi italiani hanno lavorato per costruire un’architettura di sicurezza, con pilastri l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale e la normativa Golden power ristrutturata durante il governo Draghi. Remota è sempre rimasta e rimane l’ipotesi di una vera e propria esclusione. Intanto, però, diversi operatori hanno scelto di ridurre la componentistica “made in China” nelle loro reti.

GL ALTRI DOSSIER

A Pechino il ministro Tajani ha affrontato anche altri dossier, come quelli che riguardano l’Ucraina, con l’auspicio che la Cina possa (voler) esercitare qualche pressione sulla Russia, e l’Africa, che sarà al centro dell’agenda della presidenza italiana del G7 nel corso del prossimo anno e del Piano Mattei che il governo presenterà a ottobre.

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