La volontà di Talebani afghani e Stato Islamico di colpire in Europa non è mai stata abbandonata. I timori di un settembre insanguinato in Occidente. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato, e Francesco Conti, studioso della materia (già Unodc Vienna)
Nello scorso luglio, un’operazione antiterrorismo congiunta in Germania e Paesi Bassi ha portato all’arresto di nove presunti terroristi tutti cittadini di Paesi dell’Asia Centrale (cinque tagiki, un turkmeno, e due kirghizi, tra cui una donna) affiliati allo Stato Islamico. Gli investigatori olandesi hanno poi rivelato che i due arrestati residenti nei Paesi Bassi erano coinvolti nella preliminare pianificazione di un attentato. Per l’intelligence tedesca la cellula smantellata nel Nord-Reno Vestfalia era in contatto con esponenti dello Stato Islamico presenti in Afghanistan, coinvolta in attività di finanziamento del terrorismo. Gli arrestati avevano stabilito recentemente la residenza in Ucraina, Paese scelto a seguito di un precedente ordine di espulsione dalla Turchia (non è infatti richiesto il visto per recarsi dalla Turchia all’Ucraina). Il gruppo è giunto quindi in Germania e Paesi Bassi a seguito dello scoppio della guerra, dopo che l’invasione russa ha di fatto portato l’Ucraina a concentrare tutte le attività dell’intelligence (ivi compreso l’antiterrorismo) sulla difesa, e così gli stessi cittadini radicalizzati dell’Asia Centrale hanno potuto sfruttare la possibilità di ottenere lo status di rifugiati a causa del conflitto.
Spostandoci negli Stati Uniti, la scorsa settimana l’Fbi ha reso noto che più di una decina di immigrati di origine uzbeka, entrati illegalmente in territorio statunitense passando dal confine messicano, sono stati indagati dalle autorità americane unitamente ad un trafficante di migranti legato allo Stato Islamico, con probabile base in Turchia.
L’indagine europea ha riacceso l’attenzione dell’antiterrorismo su quanto sta maturando in Afghanistan e nelle regioni vicine in concomitanza con il conflitto russo/ucraino. I Talebani, con il ritiro delle truppe internazionali e la caduta del governo Ghani nell’agosto 2021 si sono trasformati, con evidenti difficoltà, da movimento insorgente a classe dirigente del Paese dovendo pertanto anche organizzarne l’apparato di sicurezza, compresa la lotta al terrorismo, dopo che per due decenni il movimento degli studenti coranici era stato dall’altro lato della barricata. Con l’accordo di Doha del 2020, i militanti talebani si sono impegnati, infatti, con l’amministrazione statunitense a impedire che la regione afghana possa essere nuovamente utilizzata per organizzare attentati a proiezione esterna. Dopo due anni dalla vittoria in Afghanistan, vi sono però segnali contrastanti per quanto riguarda il rispetto di tale clausola, determinante per il ritiro americano.
Secondo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, i Talebani non hanno infatti deciso di troncare i rapporti, pluridecennali, con al-Qaeda. Anzi, grazie alla maggiore libertà di movimento nel Paese, l’organizzazione fondata da Osama bin Laden sarebbe ora in una fase di riorganizzazione, probabilmente allo scopo di rafforzare il proprio network nella regione. Al-Qaeda non avrebbe cioè mai abbandonato la sua velleità di colpire l’Occidente, nonostante le numerose battute d’arresto subite negli scorsi anni, da ultimo l’eliminazione del suo leader Ayman al-Zawahiri, avvenuta a Kabul la scorsa estate (proprio mentre l’emiro era sotto protezione dei talebani). I contatti fra radicalizzati islamisti dell’Asia Centrale e lo Stato Islamico in Afghanistan invece non devono sorprendere. L’organizzazione terroristica ha infatti iniziato, dopo il ritorno al potere dei talebani, una forte campagna propagandistica per portare il messaggio del califfato nelle repubbliche dell’Asia Centrale e cercare nuove reclute. Lo Stato Islamico nel corso del 2022 ha anche attaccato direttamente sia l’Uzbekistan che il Tajikistan, utilizzando, in entrambi i casi, il territorio afghano per lanciare razzi di produzione sovietica contro il territorio dei due Paesi, con l’obiettivo, secondo la propaganda jihadista, di colpire obiettivi militari.
La rinnovata aggressività dello Stato Islamico ha portato i vertici delle forze armate statunitensi a dichiararlo la principale minaccia proveniente dall’Afghanistan, prevedendo anche, nel marzo di quest’anno, che il gruppo avrebbe potuto colpire all’estero in circa sei mesi, cioè proprio in questo settembre. Gli attacchi dei terroristi dello Stato Islamico in Afghanistan hanno seguito due principali direttive strategiche, colpendo sia le forze talebane, che obiettivi legati a Paesi stranieri. Due governatori provinciali e un capo della polizia, sono stati uccisi con attacchi suicidi. Mentre, contro Paesi stranieri, vi è stato l’attentato suicida all’ambasciata russa di Kabul del settembre 2022, che causò la morte di cinque persone, fra cui anche due afgani dipendenti dell’ambasciata. Nel dicembre dello scorso anno una cellula dello Stato Islamico assaltò poi un hotel della capitale noto per ospitare uomini d’affari cinesi, ferendone diversi.
Bersagli non scelti a caso: infatti, sia la Federazione Russa che la Repubblica Popolare Cinese sono state fra le potenze che hanno supportato operazioni del movimento talebano, rivali dello Stato Islamico, all’indomani dell’annuncio del progressivo ritiro delle truppe statunitensi nel 2014, allo scopo di ottenere poi futuri vantaggi di natura politica scommettendo su un potenziale ritorno al potere dei talebani, poi avvenuto nell’agosto di due anni fa. La Cina ha subito attentati contro suoi cittadini anche in Pakistan, a opera sia dei talebani pakistani che di gruppi separatisti del Belucistan, regione dove la Cina è attivamente coinvolta a seguito della firma del China-Pakistan Economic Corridor, un enorme investimento infrastrutturale che ha il suo fulcro proprio nella regione meridionale del Pakistan.
Analisti della sicurezza internazionale avevano già previsto che, con il ritiro degli americani e la crescita della presenza geopolitica della Cina nella regione, il Paese guidato da Xi Jinping sarebbe potuto diventare un potenziale bersaglio del terrorismo jihadista, anche per le politiche repressive nei confronti dei musulmani uiguri, focus di diversi articoli propagandistici e proclami sia di al-Qaeda che dello Stato Islamico. Le due organizzazioni sono da sempre in competizione per ottenere la leadership jihadista nella regione. Il carattere nazionalista del movimento talebano (a differenza di quello transnazionale dello Stato Islamico), unitamente all’essere scesi a patti con gli Stati Uniti, così come le differenze dottrinali fra i due gruppi che hanno portato i talebani a essere accusati di politeismo da parte di Daesh, legittimando così, sul piano religioso, attentati dello Stato Islamico nei loro confronti.
Gli attacchi hanno l’obiettivo di delegittimare il regime talebano agli occhi dei cittadini afgani, dimostrando così che gli studenti coranici non sono in grado di mantenere la sicurezza all’intero del Paese. Ma minano anche la credibilità del nuovo governo talebano nei confronti di potenziali partner stranieri, sia a livello commerciale che securitario, in un periodo in cui il governo afgano ha un forte bisogno di aiuti internazionali, essendo ancora in vigore le sanzioni delle Nazioni Unite che colpiscono gli asset legati al regime talebano. Sanzioni queste giustificate dal rapporto che lega proprio i talebani ad al-Qaeda e che sono previste dalla Risoluzione 1267 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, precedente all’attentato dell’undici settembre, che puniva in chiave preventiva l’uso del territorio afgano per l’addestramento di terroristi e la pianificazione di attentati.
Sin dal ritorno al potere dei talebani si è potuta osservare anche una violenta escalation nel vicino Pakistan, dove i Talebani pakistani hanno iniziato una nuova offensiva contro Islamabad, dopo anni sulla difensiva, causate da faide interne, operazioni militari del governo pachistano e la costante minaccia, ora svanita, dei droni statunitensi. Secondo recenti statistiche, dal 2020 sono infatti triplicati gli attacchi in Pakistan. Bersaglio privilegiato degli attacchi dei Talebani pakistani, che colpiscono spesso nelle zone più remote al confine con l’Afganistan o nelle metropoli più popolose del Paese (dove hanno cellule clandestine), sono in questo caso le forze di polizia, in generale poco equipaggiate per fronteggiare la minaccia terroristica. Nonostante i rapporti che legano i talebani ad alcuni vertici dell’intelligence pakistana (la famigerata Isi), il governo di Kabul non sembra essere in grado di poter controllare i propri “cugini” anti-pakistan, che si sono invece rafforzati dopo la vittoria talebana, a cui hanno anche contribuito in prima linea. Al momento, il governo pakistano non sembrerebbe avere una strategia coerente per fronteggiare la minaccia terroristica.
Ma le prime vittime della riconquista del potere dei talebani restano gli stessi cittadini afghani. Soprattutto le donne si sono dovute scontrare con l’intransigenza islamista del nuovo governo, che non si è mostrato differente rispetto alla sua precedente incarnazione degli anni Novanta (a dispetto di alcuni proclami di apertura all’indomani della vittoria militare). Le libertà conquistate dalle donne afghane sono state progressivamente erose, giungendo a un generale divieto di frequentare l’università o di lavorare per le organizzazioni internazionali o non governative impegnate sul terreno. Un recente rapporto di Unama (la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan), ha diffuso che gli ex membri delle forze di sicurezza della repubblica afgana, a distanza di due anni dalla fine delle ostilità, continuano a essere uccisi e torturati dai talebani nonostante l’iniziale promessa di amnistia generale pronunciata dal portavoce del movimento, Zabiullah Mujahid, subito dopo la presa di Kabul. La minaccia jihadista quindi continua preoccupare l’intelligence europea per possibili attentati e la guerra non appare aver influenzato le strategie anti occidentali.