Skip to main content

Non solo Atlantide, negli abissi marini troviamo anche tanta umana incuria

I mari sono un vero e proprio patrimonio da salvaguardare per garantire l’equilibrio naturale del pianeta e il futuro e la sopravvivenza degli esseri umani. Il mare e il suo ecosistema rappresenteranno risorse fondamentali non solo per lo sviluppo economico ma anche per la vita stessa sul nostro pianeta. L’intervento di Biagino Costanzo, dirigente di azienda e docente universitario

Sono queste settimane di pausa estiva e gli italiani e non solo, si muovono all’estero, verso i monti ma soprattutto verso le località di mare. Ed è proprio quando vedi l’immensità e l’incanto del mare davanti ai tuoi occhi che rifletti sui danni che stiamo arrecandogli.

Come sappiamo l’acqua e il mare sono fonti primarie della nostra esistenza. Sin dai tempi dell’antica Grecia dove “Oceano”, appunto, era individuato come una divinità ancestrale e considerato l’origine della vita sul pianeta, il mare è uno dei più importanti alleati nella regolazione del bilancio termico e quindi del clima della Terra, perché riesce ad assorbire e rilasciare importanti quantità di calore. Questo avviene grazie alle correnti marine che, come fossero giganteschi nastri trasportatori, si muovono dall’Equatore fino ai Poli, portando con sé il calore assorbito nella zona equatoriale e rilasciandolo man mano che cambia la latitudine.

Teniamo presente che le correnti oceaniche si dividono in superficiali, ovvero quelli che muovono i primi strati d’acqua, parliamo del 10%, e quelle più profonde e il tutto dipende da vari fattori quali le maree, il vento, i cambiamenti nella densità dell’acqua, (la quale a sua volta dipende da salinità e temperatura) e non ultima dalla rotazione terrestre. Le correnti superficiali e profonde si influenzano a vicenda in un perfetto equilibrio che tiene in movimento e distribuisce il calore in tutto il pianeta, regolandone il clima.

Fatta questa doverosa premessa, ecco l’incuria.

Il problema dei rifiuti, nei mari e sulle spiagge, sta assumendo proporzioni preoccupanti.

Se esaminiamo le stime del Consiglio Generale della Pesca nel Mediterraneo (Fao) sono oltre 8 i milioni di tonnellate di materiali solidi e pericolosi di origine umana che vengono scaricati ogni anno nei mari del mondo.

I rifiuti galleggianti che vediamo in superficie, nel mare e in spiaggia costituiscono però solo una minima parte del problema: almeno il 70% dei rifiuti che entrano nell’ecosistema marino affondano. Uno studio Ispra ha evidenziato in alcune zone dell’Italia, una densità media di più di 700 rifiuti per kmq, con una densità in peso per kmq di circa 100 kg.

Anche sul fondo del mare la plastica rappresenta la stragrande maggioranza dei rifiuti ritrovati sui fondali (ben il 92%), che è anche tra quelli più pericolosi, viene ingerita da cetacei, uccelli marini e tartarughe causando danni spesso letali e la sua frammentazione genera microparticelle che, ingoiate dai pesci, possono arrivare fino alle nostre tavole.

Lì sotto troviamo le conseguenze dei tanti malaffari quali, la cattiva depurazione, la mala gestione dei rifiuti, l’inquinamento all’abusivismo edilizio, l’assalto al patrimonio ittico e alla biodiversità. Infatti solo nel 2022 lungo le coste italiane sono state quasi 14.000 le infrazioni contestate, pari a 1,9 violazioni per ogni chilometro di costa. Sono aumentati gli illeciti amministrativi, pari a 8.499 (+24,2% rispetto al 2021) e le sanzioni, 8.935 quelle comminate (+47,7%). In diminuzione, invece, il numero di reati (4.730, -32,9%) e delle persone denunciate o arrestate (4.844, -43,6%) e dei sequestri (1.623, -51,7%), per un valore economico di oltre 394 milioni di euro.

Per non farci mancare nulla e per fare un altro esempio, al largo delle coste tedesche, sul fondo del Mare del Nord e del Mar Baltico, vi sono anche circa 1,6 milioni di tonnellate di ordigni, residui bellici e munizioni, tra cui oltre cinquemila tonnellate di armi chimiche. Risalgono chiaramente alla Seconda guerra mondiale, e si trovano nelle acque territoriali tedesche a seguito di operazioni militari o dello scarico di rifiuti in mare. Il problema è noto da tempo, basti pensare che già alla fine degli anni settanta sono stati riportati casi di collezionisti di fossili che raccoglievano sulle spiagge quella che credevano ambra ma che si rivelava fosforo e che hanno procurato loro ustioni e ferite.
In questo contesto, mappare con esattezza le zone interessate e predisporre strategie di smaltimento sta diventando sempre più un tema di discussione, soprattutto perché con il passare degli anni stanno aumentando sia i costi delle operazioni di bonifica che la loro pericolosità. La prima difficoltà, tuttavia, risiede proprio nel raccogliere dati certi e completi, infatti, sono anni che si ha coscienza di alcune zone particolarmente interessate, ma in questi decenni le sostanze tossiche fuoriuscite possono essersi spostate anche per lunghe distanze.

Ed è proprio notizia di questi giorni la decisione del Giappone di iniziare a sversare in mare l’acqua contaminata, trattata, utilizzata per raffreddare i reattori dopo l’incidente nucleare causato dal terremoto e dal conseguente tsunami a Fukushima del 2011, decisione fortemente contrastata per la pericolosità e i rischi conseguenti.

Mare ed Internet

Raramente si riflette sul significato intrinseco di “rete”, ovvero un complesso di linee che si intersecano tra loro.
Tutto questo succede in fondo al mare, una vera e propria rete fisica globale di cavi interconnessi, i quali, una volta erano di rame ed oggi, sempre più spesso, di fibra ottica, ovvero filamenti vetrosi e polimerici.

I nostri oceani sono letteralmente attraversati da cavi che consentono di collegare i continenti del mondo. L’umanità intera comunica perché i dati dei nostri pc, tablet e smartphone, attraversano queste autostrade invisibili che vanno dalle dorsali montuose, al fondo degli oceani.
Quando parliamo della cablatura del mondo parliamo di un business milionario, che vede sempre più aumentare il numero dei player, da quelli tradizionali, vale a dire le ex società statali che un tempo possedevano le reti telefoniche, agli operatori di Tlc privati che dal boom della telefonia mobile degli anni ‘90 in poi hanno cercato di intercettare la domanda crescente di connessioni sempre più veloci, sicure e stabili.

Ma voglio porre una riflessione precisa sull’argomento, ovvero la sicurezza di tutte queste reti. Uno degli aspetti di maggiore rischio è l’innalzamento dei mari che, unito al riscaldamento globale, porterà, inevitabilmente, al deterioramento della cablatura sottomarina. Stando alle proiezioni sull’innalzamento degli oceani stilate dalla Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) e di uno studio dell’Università americana dell’Oregon, migliaia di chilometri di fibra ottica, posata sul fondale possano venire sommersi dal mare. La preoccupazione maggiore è proprio la tempistica di gestione del rischio, infatti nella ricerca, si afferma che “i primi problemi alle infrastrutture possono sorgere già tra 15,20 anni”. Entro pochi anni, più di 6500 miglia di cavi saranno sott’acqua, insieme con circa 1950 hub che non saranno così più utilizzabili, rischiando di mandare in tilt l’intero traffico sul web e contribuendo così anche ad accrescere, come già abbiamo accennato, l’enorme inquinamento marino.

Siamo ad un punto di svolta che deve andare oltre all’attuale scontro tra chi fa finta di nulla e nega qualsiasi emergenza anche con battute sciocche, ridicole e dissacranti, in ambito politico e/o giornalistico, e chi, spesso tradendo solo fanatismo, pensa che solo con il declinare, come un mantra, le parole “rivoluzione green”, proporre soluzioni che possano arrecare nel tempo ulteriori e peggiori danni o provocando disordini nei servizi pubblici o ancora, cosa che io aborro con forza, arrecando danni al nostro, invidiato nel modo, immenso patrimonio artistico e culturale (una delle poche cose stupende che ci son rimaste), ma esiste una terza via che è, anche in questo caso, usare la ragione.

Il progresso dell’homo sapiens ha portato contestualmente a minacciare, in questi secoli, gli equilibri della natura, ora si può porre rimedio solo attraverso soluzioni basate sui processi naturali, che sfruttano il potere della natura per aiutare gli ecosistemi a reagire agli impatti dei cambiamenti climatici. Per poter usufruire di queste soluzioni, c’è bisogno della natura, quindi, è necessario ecosistemi ed habitat che generano ricchezza per il mare e per la vita che da esso dipende.

Non lo dico io ma questa riflessione fu introdotta già nel 1992 a Rio de Janeiro, nel quadro della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, dove venne definito come “l’insieme delle attività umane che permettono alla generazione umana attuale e alle altre specie che vivono sulla Terra di soddisfare i propri bisogni senza mettere in pericolo la capacità della Terra di soddisfare i bisogni delle generazioni future, sia che si tratti di Uomini sia di altre specie che popolano la Terra”.

Inoltre, la strategia marina introdotta dalla Direttiva Europea 2008/56/Ce, recepita anche dall’Italia, prevede azioni di risanamento che non possono prescindere dalla conoscenza approfondita dell’ambiente marino e da un rafforzamento del monitoraggio dei parametri di salute di questo ecosistema così delicato.

Ricordiamolo sempre e non solo quando accade qualcosa o nell’emergenza di una catastrofe improvvisa, i mari sono un vero e proprio patrimonio da salvaguardare per garantire l’equilibrio naturale del pianeta e il futuro e la sopravvivenza degli esseri umani. Il mare e il suo ecosistema rappresenteranno, sempre in maggior misura, risorse fondamentali non solo per lo sviluppo economico ma anche per la vita stessa sul nostro pianeta.

×

Iscriviti alla newsletter