La Convenzione di Dublino, da cui derivano i regolamenti in vigore, fu scritta nel 1990, cioè ere glaciali fa. Il nostro Presidente della Repubblica l’ha definita “preistoria”. Proviamo a lavorare insieme per uscirne, cercando di allargare la solidarietà alla parte mediterranea dei Paesi dell’Ue. Chissà se da questa situazione drammatica non possa sortire finalmente una risposta di senso. La rubrica di Pino Pisicchio
Meno male che è rimasto Sergio Mattarella a dire parole di verità, pane al pane, su temi dove la verità è quasi sempre elusa. Parliamo dei regolamenti di Dublino, che rappresentano la bibbia delle politiche allestite dall’Ue per affrontare i flussi migratori: per il Presidente della Repubblica sono “preistoria”.
La Convenzione di Dublino, da cui derivano i regolamenti in vigore, fu scritta nel 1990, cioè ere glaciali fa, e, ovviamente, non funziona più, non foss’altro perché continua a basarsi sulla finzione della solidarietà tra gli Stati membri nell’accoglienza volontaria dei migranti, riservando al Paese di primo impatto “solo” il compito dell’identificazione e del primo soccorso. Ovviamente di solidarietà non si è visto quasi niente e gli Stati membri geograficamente esposti (come l’Italia) al fenomeno, hanno dovuto affrontare in solitudine il problema. Da trentatrè anni va così. Occore – dice Mattarella – una volta per tutte mettere mano a soluzioni coraggiose, consapevoli della natura “strutturale” e non emergenziale del fenomeno. Come dargli torto?
Tanto per capirci guardiamo i numeri: nel 1990 gli abitanti del pianeta erano meno di 5,3 miliardi. Oggi abbiamo superato di slancio gli otto miliardi. Trentatrè anni fa l’Africa aveva un totale di 622 milioni di abitanti. Oggi nel Continente Nero di esseri umani ce ne sono 1,5 miliardi. È chiaro, allora, come stanno le cose?
Con questi numeri è più facile capire che sarà del tutto improbabile che il tema dell’accoglienza, con il suo ambiguo mischiarsi di ragioni umanitarie e preoccupazioni securitarie, possa uscire dall’agenda della piccola Europa: quel tema “strutturale” terrà banco con sempre maggiore rilievo nella lista delle priorità della politica italiana. Dove l’appello alla paura noto alla psicologia delle masse, nel caso di specie la paura dell’uomo nero, rappresenta il piatto principale nel menù dei sovranisti.
Per quel che riguarda il legislatore italiano e nel limite di un intervento che, per poter produrre risultati efficaci, dev’essere necessariamente coordinato con il livello europeo, la linea di sviluppo della politica immigratoria è stata negli ultimi decenni sinusoidale, poiché ha seguito l’andamento dei governi, riproducendone l’alternanza politica nei contenuti e nella narrazione pubblica. Alla riforma Turco Napolitano del governo di centrosinistra, risalente al 1998, si contrapponeva quella Bossi-Fini del governo Berlusconi nel 2002; a quella Minniti del 2017, la Salvini del 2018, e alle correzioni all’impianto salviniano apportate dalla ministra Lamorgese nel governo di unità nazionale (Draghi 2020), la riforma Piantedosi (2023) decisamente caratterizzata da una filosofia securitaria, in un susseguirsi di mutamenti d’impostazione che non hanno saputo configurare una politica italiana di asilo stabile e riconoscibile.
Dunque politica migratoria come argomento principe per le campagne elettorali, con la posta in palio di fette di votanti estenuate anche da una informazione decisamente allarmistica e dalla tendenza a seguire lo schema binario che vede di qua i “buonisti” e dall’altra parte i “securitari”.
Varrebbe, allora, la pena di scremare quel tanto di “buonismo selettivo” che ha fatto generosa l’Europa – con l’Italia in prima linea – nell’accoglienza del popolo ucraino in fuga dalla guerra, circa otto milioni di profughi all’altezza del mese di maggio 2023, mentre fa gridare all’assalto dell’uomo nero per i 157.000 migranti giunti, attraverso il Mediterraneo, dall’Africa, dal Medio Oriente, dall’Asia Centrale e Meridionale nei primi otto mesi del 2023. I dati sono dell’Unhcr, e dell’Unicef, le agenzie Onu per i rifugiati e per la tutela dell’infanzia.
Questa storia delle migrazioni non è come una di quelle favole con la “morale” in coda che racconta ciò che è o non è giusto. Sappiamo, però, cosa non si deve più fare: pensare di pagare qualche satrapo per fare il lavoro sporco, togliendoci l’ingombro dei poveracci che arrivano coi barchini, secondo lo schema elementare “occhio non vede, cuore non duole”. Abbiamo sbagliato illudendoci che potessero farlo i ras libici, Erdogan e da ultimo – con grande strombazzamento mediatico – il presidente tunisino. Sappiamo com’è andata: malissimo. Sappiamo, come europei, che non possiamo accogliere tutti, ma cerchiamo nell’accoglienza di non cadere nella trappola del pregiudizio etnico, perché a un povero cristo in fuga dal dramma di una guerra o della fame hai il dovere di offrire l’assistenza, senza guardare al colore della pelle. E poi cerchiamo, almeno come italiani, di darci una moratoria nello scontro politico su questi temi: se il problema è strutturale non c’è governo che potrà mai eluderlo. Le critiche che la sinistra fa oggi alla destra saranno quelle che la destra domani farà alla sinistra.
Proviamo a lavorare insieme per uscire dalla “preistoria”, cercando di allargare la solidarietà alla parte mediterranea dei Paesi dell’Ue. Chissà se da questa situazione drammatica non possa sortire finalmente una risposta di senso.