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Per evitare l’assedio degli alleati Meloni parli direttamente al Paese

La manovra di fine anno scatena appetiti e richieste impossibili, specie quando si avvicinano le elezioni (a giugno l’eurovoto). La premier spiazzi nostalgici e populisti in nome della responsabilità finanziaria. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Se ci trovassimo al posto di Giorgia Meloni non ci preoccuperemmo più di tanto del rischio veder nascere, alla nostra destra, partiti o movimenti intrisi di estremismo nostalgico. Anzi, per certi versi, ne saremmo quasi felici, perché vorrebbe dire che la destra ora al governo non ha davvero più nulla da spartire con l’eredità del fascismo o del post-fascismo. Eppure, chissà perché, ogni qual volta si profila una scelta cruciale o divisiva, si ripresenta il timore, nei settori più attenti al Fattore Identità, di perdere i voti dell’elettorato iniziale di Fratelli d’Italia.

Eppure, va ricordato, l’elettorato primordiale del partito meloniano tutto era tranne che un’aggregazione di massa. Evocava, semmai, più la funzione di un partito di testimonianza che la prospettiva di una forza egemone in una coalizione maggioritaria. Men che meno quella neonata creatura lasciava presagire l’approdo a Palazzo Chigi per la sua ambiziosa leader. Invece, si è verificato l’inatteso, segno che una parte consistente di italiani ha scelto, nell’urna, il partito della Meloni aspettandosi non la purezza ideologica, ma un accettabile pragmatismo programmatico. Se così non fosse o non fosse stato, difficilmente Fratelli d’Italia avrebbe superato quota 26% alle ultime politiche, attestandosi successivamente, nei sondaggi, attorno al 30%.

Né sarebbe realistico ipotizzare che una ragguardevole fascia di italiani abbia dismesso l’abito moderato per indossare la divisa militante, in questo caso segnata a metà tra i colori del sovranismo spinto e le tinte del populismo radicale. Molto più verosimilmente gli elettori sedotti dalla Meloni hanno visto in lei una dirigente conservatrice in grado di governare senza concedere molto alle pretese dei vecchi militanti post-missini.
Ecco perché non convincono le sollecitazioni di quanti consigliano alla Meloni di evitare strappi con la frangia dei duri e puri, così come non convincevano, sull’altro versante, i consigli tesi a scongiurare la nascita di formazioni concorrenti a sinistra, quasi che le ali estreme dell’offerta politica disponessero di milioni e milioni di simpatizzanti meritevoli di essere coccolati come bimbi in culla. Non è mai stato così a sinistra, non è mai stato così a destra. Lo attestano i consensi irrisori ottenute dalle sigle politiche sorte in seguito a scissioni di natura iper-identitaria.
Piuttosto la Meloni dovrebbe guardarsi bene dalla tentazione di cedere qualcosa ai gruppi più passatisti di FdI.

Uno, perché l’ideologismo mal si concilia con l’idea del partito di programma, fondamentale per guidare esecutivi alle prese con problemi complessi e con impegni internazionali che prescindono dalle aspettative e dai manifesti propagandistici dei singoli gruppi politici. Due, perché il quotidiano voto dei mercati incide sulla tenuta dei governi più delle manovre parlamentari e delle periodiche verifiche elettorali. Tre, perché l’exploit meloniano, nelle votazioni di un anno addietro, è dipeso dal consenso tributato a Fdi da parte di molti elettori tradizionalmente di centro.

Non è facile mediare tra pulsioni diverse e spesso contrastanti all’interno di una medesima coalizione. Non è facile soprattutto quando all’orizzonte sta per avvicinarsi una prova elettorale particolarmente impegnativa e conflittuale, tipo il voto europeo, caratterizzato, tra l’altro, dall’assegnazione proporzionale dei seggi di Strasburgo.

Il che tende a esasperare gli animi tra i partiti alleati in rivalità tra loro, anziché tra i partiti avversari in competizione tra loro. E dal momento che ciascun leader, ciascun capo-corrente, ciascun ministro, ciascun parlamentare semplice cerca di distinguersi fino allo stremo presso gli elettori per ottenere il pieno dei voti per la propria lista e per i propri candidati, la litigiosità politica è destinata ad aumentare di decibel in decibel, con buona pace dello spirito di squadra, di coalizione e di tenuta governativa.
La manovra economica costituisce da sempre la prova del nove per lo stato di salute di un governo perché mette a dura prova la pazienza del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, assediati minuto per minuto da postulanti famelici a caccia di favori e prebende per i propri collegi elettorali, oltre che per clientele di sostentamento e per corporazioni si riferimento. La riduzione della spesa pubblica parassitaria si rivela immancabilmente più proibitiva di una scalata alpina con le scarpe da tennis. Rispondere no alle pressanti richieste di aumenti di spesa è già, di per sé, un atto di eroismo, spesso condannato alla successiva ritorsione da parte dei delusi per il gran rifiuto pronunciato da chi tiene i cordoni della borsa. Ma il pressing che si scatena sulla legge di bilancio di fine anno non conosce pause, è un rito che si ripete ogni anno come una processione per il santo patrono.
Sta accadendo anche stavolta, con la Meloni e Giorgetti intenti a rintuzzare le pretese dei partiti della coalizione, e con il varo di provvedimenti alquanto demagogici, vedi gli extraprofitti delle banche, suscettibili di produrre effetti controproducenti come la traslazione di imposte (nel caso degli istituti di credito tramite il rincaro di servizi e commissioni per correntisti e risparmiatori vari).
Fossimo al posto della presidente del Consiglio bypasseremmo le questioni legate ai mal di pancia dei nostalgici, ai reclami degli alleati e alle istanze dei gruppi di pressione prendendo in seria considerazione l’idea di rivolgerci direttamente agli italiani per spiegare loro qual è la posta in gioco in un Paese con i conti in disordine, qual è il pericolo connesso a una gestione ancora allegra della finanza pubblica, qual è il motivo per cui i alle rivendicazioni in una nazione così conciata sono assai più salutari dei “sì”.
È ovvio che una sortita del genere segnerebbe una cesura netta con la militanza ideologica di un tempo e con ogni retropensiero metà populistico e metà sovranistico. Ma sarebbe una sortita chiarificatrice, oltre che proficua, per la casa comune degli italiani, anche a costo di sfidare la popolarità conquistata finora. Del resto, come insegnava Luigi Einaudi il disprezzo della popolarità costituisce la principale virtù di chi governa uno Stato.



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