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Il paso doble di Xi e la politica estera della Cina. L’analisi di Fracchiolla

Domenico Fracchiolla, professore di Storia delle Relazioni internazionali Università Mercatorum, Luiss, analizza perché nel medio periodo gli obiettivi di fondo dell’offensiva diplomatica cinese sono destinati ad essere vanificati e perché le accelerazioni di Xi in politica estera rischiano di generare instabilità regionale e in patria

Nella politica estera della Repubblica popolare cinese possono individuarsi momenti di rottura e di continuità che delineano complessivamente 3 grandi fasi. La prima corrisponde ai primi 30 anni della Repubblica che coincidono con l’epoca maoista. In questo periodo, l’evoluzione dei rapporti con Mosca è centrale, con un’iniziale allineamento per le forniture materiali, militari e tecnologiche di cui Pechino ha assoluta necessità. La Cina contribuisce ai conflitti periferici della guerra fredda come nella guerra di Corea (1950-1953). Questa fase prosegue anche dopo la rottura delle relazioni con l’Urss, quando Pechino diventa l’alfiere dell’ortodossia leninista e si avvicina al movimento dei non allineati. La diplomazia triangolare di Kissinger (normalizzazione dei rapporti con la Pechino per isolare Mosca) consente alla Cina di prendere il posto di Taiwan all’Onu, facendo valere l’idea dell’esistenza di “un’unica Cina”.

Dopo la morte di Mao Zedong (1976) si apre la seconda fase, che durerà per più di trenta anni, con la linea politica di Deng Xiaoping, caratterizzata da pragmatismo, sviluppo economico e benessere. Per realizzare questi obiettivi si procede all’apertura verso l’esterno al fine di colmare il divario tecnologico con i Paesi industrializzati, normalizzare i rapporti diplomatici con gli Usa (1979) e istituire (dal 1980) Zone Economiche Speciali, per attrarre gli investimenti internazionali grazie a regimi fiscali di particolare favore. L’azione di politica estera è funzionale e si ispira a cinque principi: la coesistenza pacifica, il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, la non interferenza negli affari interni, la non-aggressione e lo sviluppo congiunto nei rapporti economici. Sulla spinosa questione di Taiwan, Deng predica il modello “un Paese, due sistemi”, intendendo che la riunificazione territoriale avrebbe lasciato libera l’isola di seguire i precetti liberisti dell’economia di mercato di stampo occidentale. Il basso profilo internazionale consente in questi anni alla Cina una crescita tumultuosa al riparo da contrasti geopolitici e di essere ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. La linea pragmatica di Deng è seguita con continuità anche dai leader successivi Jiang Zemin e Hu Jintao.

Con Xi Jinping si entra nella terza fase della politica estera della Rpc, a partire dal suo «sogno del grande ringiovanimento della nazione cinese» che mette in discussione la solida linea di sviluppo di Deng. Dal 2013, il lancio del progetto della Road and Belt Initiative, di enorme portata per numero di Paesi coinvolti e risorse dispiegate, il crescente sostegno alle missioni di peace-keeping dell’Onu, il considerevole numero di viaggi all’estero di Xi, l’istituzione dell’Asian Infrastructure Investment Bank, evidenziano la ricerca di una maggiore visibilità e riconoscimento.

La politica estera diventa la leva per esaltare lo standing internazionale. Negli ultimi 10 anni, l’esuberanza e l’intraprendenza di Pechino si arricchiscono di nuove accelerazioni, un paso doble di Xi per affermare la grandeur della Cina: l’iniziativa dell’allargamento dei Brics (che ricorda la retorica del nuovo ordine economico del PVS e dei non allineanti degli anni ’60, -’70), l’offensiva diplomatica verso i Paesi del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia Centrale, in sostituzione di Mosca, e lo stretto rapporto con la Russia di Putin nel suo momento di maggiore difficoltà internazionale con la guerra in Ucraina. Quest’ultima relazione, in particolare, è un aspetto strategico rilevante, all’interno della competizione con gli Stati Uniti e l’India nell’Indo-pacifico. Le dichiarazioni di “amicizia senza limiti” nascondono la dipendenza di Mosca dai mercati di sbocco cinesi per le forniture energetiche, che potrebbe alterare gli equilibri. Infine, il ruolo che la Cina si è ritagliata nella transizione green, di monopolista nell’estrazione e lavorazione dei minerali delle terre rare, di big player dei mercati dei pannelli solari e delle pale eoliche, sono ulteriori espressioni della politica muscolare. Anche in riferimento alla politica interna, la politica estera è diventata centrale per spostare l’attenzione dagli squilibri economici e dalla nijuanm, “la involuzione”, il processo di graduale isolamento della società, a causa delle misure di controllo tecnologico e chiusura verso l’esterno, che porta alla sclerotizzazione sociale e al montare del dissenso (Ian Jhonson su Foreign Affairs paragona la Cina ai Paesi dell’Europa dell’est isolati dal muro di Berlino).

In verità dietro tanta assertività, si nascondono i gravi rischi di overstreching per una politica estera tanto dispendiosa quanto incerta negli esiti e nelle tempistiche dei dividendi attesi, aggravati dal rallentamento dell’economia e malcontento tra la popolazione. Inoltre, come nei secoli scorsi, fin dai tempi del Break up of China, gli Stati Uniti, che dispongono ancora di una supremazia militare, economica e finanziaria, intervengono in funzione antiegemonica nello scacchiere indo-pacifico, organizzando la controffensiva dell’Occidente, tra de-coupling, friendshoring e il consolidamento dell’Asia Pivot.

Nel medio periodo, gli obiettivi di fondo dell’offensiva diplomatica cinese sono destinati ad essere quindi vanificati, gli equilibri internazionali non saranno alterati e un nuovo ordine mondiale a guida cinese rimarrà un esercizio intellettuale, mentre le accelerazioni di Xi in politica estera rischiano di generare instabilità regionale e in patria. Il secolo della Cina è appena iniziato, ma la lezione di Deng sembra già dimenticata.

 


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