I problemi inerenti all’assetto organizzativo sembrano essere alla base della proposta di riformare il sistema italiano recentemente resa pubblica. L’analisi di Niccolò Petrelli, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Studi Strategici, e Senior Researcher per StartInsight
Alcune settimane fa i quotidiani hanno riportato la notizia che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica (AD) Alfredo Mantovano intende entro la fine dell’anno sottoporre al Parlamento una bozza di riforma dell’apparato di intelligence. La materia è estremamente complessa non solo per via della segretezza che circonda l’ambito delle informazioni per la sicurezza e di una generalizzata scarsa familiarità con il tema, ma anche perché la riforma di un apparato informativo presenta dilemmi di funzionalità ed efficacia, così come di controllo e responsabilità democratica. Se questi ultimi si sono già profilati nelle poche notizie riportate dai quotidiani, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda i primi. La funzionalità e l’efficacia di un sistema di intelligence rivestono tuttavia enorme importanza, dal momento che la decisione politica si basa necessariamente sulla disponibilità di informazioni e che, in presenza di un apparato disfunzionale, i decisori politici tenderanno a reperire altrove e in autonomia le informazioni che ritengono necessarie all’esercizio del proprio ruolo, con rischi tutt’altro che trascurabili per quanto riguarda il controllo effettivamente esercitabile dalle autorità preposte circa la democraticità dei processi attraverso cui tali informazioni vengono prodotte.
In un noto studio di alcuni anni fa lo storico di Harvard Ernest May concluse che l’architettura organizzativa di un sistema di intelligence non sembrava avere un impatto determinante sulla performance dello stesso. Negli ultimi anni tuttavia tale conclusione, basata del resto sullo studio dei periodi precedenti le due guerre mondiali, è stata sempre più spesso messa in discussione, e attualmente il consenso tra gli studiosi è che l’organizzazione sia una delle variabili chiave nel determinare l’efficacia di un sistema di intelligence nel processo di raccolta e analisi delle informazioni, e dunque la sua capacità di generare “conoscenza” utile a prendere decisioni politiche suscettibili di avere un impatto sull’ambiente strategico di riferimento. Alla base di tale nuovo consensus vi sono due elementi: i rimarchevoli cambiamenti intervenuti nel contesto strategico-operativo in cui gli apparati informativi occidentali sono chiamati ad operare, ed un’evoluzione sempre più rapida nelle tecnologie rilevanti per l’attività di raccolta e analisi delle informazioni. Da un lato, i servizi di informazione operano oggi in un ambiente strategico instabile e soggetto a mutamenti estremamente rapidi, il che produce significativi cambiamenti nella natura del lavoro di intelligence, in particolare la necessità di identificare e monitorare entità e minacce “nascoste”, e “processi emergenti”. Dall’altro, sono costretti a confrontarsi con un ciclo di innovazione tecnologica estremamente rapido che a sua volta genera una sfida di acquisizione, integrazione e innovazione particolarmente problematica per organizzazioni di dimensioni medio-piccole.
E proprio problemi inerenti all’assetto organizzativo sembrano essere alla base della proposta di riformare il sistema italiano recentemente resa pubblica: come sottolineato in diverse occasioni da addetti ai lavori infatti, l’efficacia dell’apparato informativo della Repubblica è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti del sistema. La soluzione individuata dall’AD per questo annoso problema si è orientata dunque verso la “centralizzazione”, ovvero la creazione di un unico servizio informazioni con competenze sia sul territorio nazionale che all’estero. Il tema della centralizzazione non è nuovo al dibattito italiano sulla politica dell’informazione per la sicurezza: una proposta per la creazione di un servizio informativo unico fu infatti avanzata già nel 1993 da parte del governo Ciampi. Una riforma di questo tipo appare tuttavia oggi di difficile realizzazione, non solo per i numerosi ostacoli tecnici e burocratici a cui potrebbe andare incontro, ma anche alla luce dei timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe politica e dell’opinione pubblica.
In ogni caso la creazione di un servizio unico non rappresenta la sola possibile soluzione al problema della frammentazione. La recente letteratura di studi sull’intelligence, così come la storia dell’apparato informativo italiano, offrono al contrario alcune preziose indicazioni per sviluppare linee generali di riforma alternative mantenendo la attuale struttura triangolare che, oltre a risolvere il problema della frammentazione, consentirebbero di affrontare in maniera adeguata le sfide precedentemente menzionate ed assicurare efficacia e rilevanza alla funzione d’intelligence nel contesto italiano nei prossimi anni.
Un primo spunto potrebbe venire dal relativamente recente concetto di “Revolution in Intelligence Affairs”(RIA) epigono del più noto costrutto di “Revolution in Military Affairs” coniato negli anni 90. La nozione di RIA contiene tre prescrizioni fondamentali per riformare le strutture delle organizzazioni di intelligence ed adattarle nella maniera migliore all’ambiente informativo attuale e futuro. Anzitutto, acquisizione e integrazione su base continuativa di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione. In secondo luogo, promozione da parte dei vertici delle organizzazioni di intelligence di cambiamenti organizzativi volti ad integrare raccolta e analisi, generare un certo grado di ridondanza organizzativa tra le varie componenti del sistema, e creare meccanismi più rapidi per la diffusione in tempo reale ai decisori a tutti i livelli (oltre a sviluppare concetti operativi per il teaming uomo-macchina che ottimizzino i punti di forza di ciascuno). Da ultimo, i sostenitori della RIA ritengono che in futuro la maniera più efficiente di operare per un sistema di intelligence sia ridurre la sequenzialità delle operazioni a beneficio di una maggiore sincronia nelle quattro funzioni fondamentali di pianificazione, raccolta, analisi e disseminazione.
Il concetto di RIA, per quanto utile come costrutto-guida generale, potrebbe tuttavia in una certa misura risultare di limitata rilevanza per un sistema di intelligence come quello italiano, estremamente diverso per obiettivi, dimensioni, grado di tecnologizzazione, e risorse da quello statunitense, in relazione a cui è stato sviluppato. Elementi di riferimento più concreti potrebbero venire dal concetto di “integrazione” (Jointness) applicato all’ambito informativo, dibattuto ed impiegato come principio guida per vari cicli di riforme in seno all’intelligence israeliana. Esso si fonda sull’ampio consenso esistente negli studi di teoria dell’organizzazione circa la necessità, per un’organizzazione che aspiri ad operare in maniera efficace in un ambiente complesso e mutevole, di mantenere un alto livello di specializzazione delle varie componenti del sistema nonché di assicurare meccanismi di interazione estremamente flessibili tra le stesse al fine di integrare al massimo grado le competenze.
Nel dibattito israeliano con il concetto di “integrazione” si è inteso delineare un nuovo tipo di assetto organizzativo per il sistema di intelligence che si spingesse oltre la mera istituzionalizzazione di forme di collaborazione e cooperazione, come ad esempio la condivisione di strutture e prodotti o i tavoli di lavoro pianificati. L’“integrazione” si riferisce infatti alla “creazione di nuove capacità sistemiche attraverso la fusione delle risorse e delle competenze delle varie componenti dello stesso”.
Tre sono le linee di riforma ritenute essenziali per la creazione di tali capacità sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di lavoro, autonomia. La ridondanza si riferisce alla generazione all’interno delle varie componenti del sistema di surplus di competenze analoghe rispetto alle rispettive esigenze, sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle informazioni (in particolare di raccolta tecnica), sia in relazione a tecniche analitiche (ad esempio: strutturate, qualitative, quantitative) ed aree disciplinari (ad esempio: analisi economica, social network analysis, studi antropologico-culturali).
Il secondo elemento, il riordino dei processi lavorativi, contempla invece che all’interno delle varie componenti del sistema, accanto ai classici processi lineari, paralleli e funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari misura processi “di rete” gestiti su base logica anziché funzionale che eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e l’elaborazione delle informazioni, ad esempio attraverso la creazione di gruppi di lavoro che, in relazione a questioni emergenti, operino congiuntamente lungo l’intero “ciclo dell’intelligence” per periodi di tempo prolungati.
Infine, per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission command” da tempo in uso proprio nelle forze armate israeliane, statunitensi, britanniche, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro, a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti finali. In sintesi dunque l’“integrazione” crea le condizioni per una capacità di continuo adattamento del sistema d’intelligence decentralizzando al massimo il processo di produzione dell’intelligence e contemporaneamente centralizzando il suo output, ovvero la conoscenza.
Tale nozione appare dunque decisamente più appropriata come costrutto-guida per riformare il sistema informativo italiano poiché, essendo incentrata sullo sviluppo e rafforzamento dei meccanismi di interazione verticali e orizzontali tra le varie componenti organizzative del sistema, è suscettibile di produrre quella moltiplicazione di forze che risulta essenziale perché un sistema medio-piccolo e risorse limitate come quello italiano possa superare i problemi di frammentazione di cui attualmente soffre e gestire efficacemente le due sfide precedentemente menzionate. A questo punto è necessario riflettere su “come” declinare tale costrutto-guida alla luce dell’effettivo funzionamento del comparto intelligence.
Storicamente il sistema di intelligence della repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali, una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse in altri.
Per quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie dalla storia del sistema informativo italiano emerge chiaramente come, anche in situazioni di accesa rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato eccellenti capacità sia di coordinamento che di cooperazione. Alcuni primi esempi in tal senso possono trarsi già dal periodo 1949-1977, in cui il sistema di intelligence, formalmente centralizzato con il servizio informazioni militare unico organismo deputato alla raccolta, analisi e protezione delle informazioni a tutela della sicurezza dello stato, di fatto operava come un sistema binario, con la Divisione Affari Riservati (DAR) del Ministero dell’Interno come servizio informativo civile. In particolar modo, tra il 1951 ed il 1954 SIFAR e DAR collaborarono efficacemente attraverso tavoli di lavoro a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni della rete informativa Los Angeles, impiantata dall’intelligence militare USA nell’Italia nordorientale e tentare di appropriarsene. Un ulteriore esempio potrebbe considerarsi la collaborazione avviata intorno alla fine del 1963 in materia di raccolta tecnica. La DAR ottenne l’affidamento del centro radio di Monterotondo, che fu destinato alla localizzazione e l’intercettazione di emittenti clandestine, nonché di radiotrasmissioni provenienti dai paesi comunisti dell’Europa orientale. SIFAR e DAR iniziarono una stretta cooperazione, che sarebbe durata fin quasi al 1966, volta allo sviluppo da parte del servizio civile di competenze specialistiche in materia, non solo in relazione all’impiego di particolari attrezzature per intercettazioni, ma anche per operazioni di bonifica.
Altri, ancor più significativi esempi, possono derivarsi dal periodo successivo alla riforma del sistema d’intelligence attuata con la legge n. 801 del 1977. La documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra, ancora una volta, una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa. Ciò emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti archivistiche disponibili. Nella seconda metà del 1978 il SISDE, di recente creazione, avrebbe dovuto essere la principale agenzia deputata a produrre un flusso di informazioni a sostegno delle operazioni anti-terrorismo. Essa tuttavia mancava ancora di una infrastruttura sul territorio nazionale, non disponeva di un patrimonio informativo organizzato, né di una consolidata rete di fonti. In tale circostanza il SISMI, in quanto erede strutturale del SIFAR e del SID, non solo si adoperò per un prolungato periodo di tempo per sopperire a tali carenze, fornendo costante supporto informativo all’azione anti-terrorismo delle forze dell’ordine, ma avviò attraverso la 1^ Divisione (ex ufficio “D” del SID), una strettissima cooperazione con il SISDE. Essa si tradusse in una “coabitazione” delle due agenzie nei Centri di Contro Spionaggio (CS) del SISMI, in particolare nelle città di Milano, Torino e Genova, con condivisione di fonti, risorse e metodologie di raccolta, al fine di costruire un surplus di capacità sistemiche nel neonato SISDE.
Al contrario, la documentazione d’archivio disponibile in merito al funzionamento del sistema d’intelligencecreato dalla legge n. 801/1977 evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Benché come notato dalla Commissione Stragi nel 1993, e di nuovo nel “Primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza” del 1995, il principale organo di coordinamento e sintesi informativa, ovvero il CESIS, abbia nel corso degli anni svolto un ruolo sempre più incisivo, per via della mancata applicazione di numerosi regolamenti e disposizioni negli anni i poteri di quest’organo sono de facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella disciplina di legge. Ciò, a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale (segretari più efficaci nell’attività di sintesi informativa come Orazio Sparano si sono alternati a figure meno in grado di porre in essere un effettivo coordinamento nell’attività delle agenzie operative come Francesco Paolo Fulci).
Trarre conclusioni circa la sussistenza o meno nell’attuale assetto dei livelli di integrazione mostrati storicamente dal sistema di intelligence italiano è estremamente difficile data la segretezza che circonda la materia e la mancanza di documentazione relativa al periodo successivo all’approvazione della legge n. 124/2007. È plausibile ipotizzare che a seguito della più recente riforma del sistema informativo ed il potenziamento dell’organo di coordinamento e sintesi informativa, con la creazione del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo del CESIS, le carenze in materia di integrazione verticale siano state almeno in parte sanate. L’impressione tuttavia da dichiarazioni di ex vertici, eventi trapelati sulla stampa, e fonti estere è che a livello di integrazione, sia orizzontale che verticale, il sistema non abbia subito rilevanti trasformazioni.
Come dunque procedere alla luce degli elementi di analisi teorici e storici qui brevemente presentati? Due raccomandazioni base appaiono di particolare importanza: espandere lo spazio di interazione delle due agenzie operative, e consentire al DIS di perseguire quelle che potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul processo di produzione dell’intelligence.
Delle tre misure che la letteratura teorica evidenzia come essenziali per infondere “integrazione” in un sistema d’intelligence, autonomia, ridondanza, e riordino dei processi, l’apparato informativo italiano necessità principalmente della prima. Come visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro congiunti e non lineari. Al fine di sfruttare nella maniera più produttiva questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree (introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da attivarsi in base alle necessità.
Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence. In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra soffrire dal 1977.
Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza (RIS) nel sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligencerelativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di fondamentale importanza.
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