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Fake news cinesi. C’è anche l’Italia nel report Usa

Il dipartimento di Stato americano ha diffuso un documento in cui si legge che “Pechino ha investito miliardi di dollari per costruire un ecosistema globale che promuove la sua propaganda e facilita la censura e la diffusione di disinformazione”. Si parla anche di Huawei, TikTok e dell’Italia, per gli accordi dell’agenzia di stampa Xinhua nel nostro Paese

La Cina punta a plasmare a proprio vantaggio l’ambiente globale dell’informazione. È quanto afferma un rapporto diffuso dal dipartimento di Stato americano e redatto dal Global Engagement Center, nel quale si legge che “Pechino ha investito miliardi di dollari per costruire un ecosistema globale dell’informazione che promuove la sua propaganda e facilita la censura e la diffusione di disinformazione”.

Ma nonostante siano stati “formidabili”, si legge ancora, “gli sforzi cinesi hanno subito sconfitte nei Paesi democratici, dovute in larga parte alla resistenza dei media locali e della società civile”. Il rapporto rileva che “gli sforzi di manipolazione delle informazioni da parte della Cina presentano cinque elementi principali: sfruttare la propaganda e la censura, promuovere l’autoritarismo digitale, sfruttare le organizzazioni internazionali e i partenariati bilaterali, abbinare cooptazione e pressione ed esercitare il controllo sui media in lingua cinese”. Questi cinque elementi “consentono a Pechino di piegare a proprio vantaggio l’ambiente informativo globale. In caso di successo, gli sforzi della Cina potrebbero trasformare il panorama informativo globale, creando pregiudizi e lacune che porterebbero le nazioni a prendere decisioni che subordinano i loro interessi economici e di sicurezza a quelli di Pechino”, si legge ancora.

Tre, invece, i tipi di impatti globali della manipolazione dell’informazione da parte della Repubblica popolare cinese. Pechino sta “acquisendo un’influenza palese e occulta su contenuti e piattaforme”; “limitando la libertà di espressione a livello globale”; “promuovendo una comunità emergente di digitali-autoritari”.

Nel documento vengono citate anche due aziende cinesi da tempo nel mirino del governo degli Stati Uniti come di quelli di altri Paesi occidentali. La prima è Huawei: viene citato come esempio di tentativo di limitare la libertà di espressione l’episodio in cui la filiale aveva intentato causa per diffamazione nel 2019 ma ritirata tre anni più tardi contro la ricercatrice Valérie Niquet della Fondation pour la recherche stratégique che aveva sostenuto durante un talk show che l’azienda era “sotto il controllo dello Stato” a causa della presenza di un comitato del Partito comunista cinese all’interno dell’azienda. La seconda è TikTok: la casa madre, ByteDance, “cerca di bloccare l’utilizzo delle sue piattaforme da parte di potenziali critici di Pechino, compresi quelli al di fuori della Repubblica popolare cinese”, si legge. E ancora: “Già alla fine del 2020, ByteDance aveva un elenco interno regolarmente aggiornato che identificava le persone che probabilmente erano bloccate o limitate da tutte le piattaforme ByteDance, compresa TikTok”.

Nel rapporto compare anche l’Italia. Una volta, quando si parla degli accordi stipulati dall’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua con organi di informazione in vari Paesi. Vengono citati Australia, Italia, Bangladesh, India, Nigeria, Bielorussia e Vietnam “e molti altri”. Il riferimento è all’accordo tra Xinhua e Ansa, firmato sulla scia del memorandum d’intesa sulla Via della Seta siglato nel marzo del 2019 dal governo gialloverde di Giuseppe Conte ma non rinnovato un anno fa. Da allora il notiziario Xinhua in Italia è pubblicato da Agenzia Nova.



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