Che si tratti di conflitti freddi o caldi, le grandi partite del nostro tempo ruotano attorno alla figura esistente o ricercata dello Stato-nazione. Scrive Luca Picotti, avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine, autore di “La legge del più forte” (Luiss)
È difficile cogliere l’intima natura dei conflitti di questa fase storica senza affacciarsi alla figura dello Stato, tanto vituperata negli anni Novanta in forza di una narrazione che vedeva nell’emergere di un mondo piatto, globalizzato e interconnesso la fine della dimensione statual-nazionale. A ben vedere, ancora oggi lo Stato, inteso come entità superiorem non recognoscens costituita dal trinomio governo-popolo-territorio, rappresenta il cuore delle dinamiche internazionali, sia in veste di attore, che di punto di arrivo di collettività in lotta per il riconoscimento. È senz’altro una competizione tra Stati quella tra Washington e Pechino, giocata attraverso le armi del diritto per la supremazia tecnologica, economica e politica. Allo stesso tempo, integra una guerra tra Stati quella tra Russia e Ucraina, ove concetti come territorio, nazione e sovranità fungono da cardini nella narrazione stessa – si pensi alla formazione di una identità nazionale ucraina in funzione antirussa e che rivendica orgogliosamente la propria statualità e sovranità territoriale, aspetto troppo spesso sottovalutato quando si parla con leggerezza di negoziati di pace. Anche il conflitto israelo-palestinese, riacceso di recente dal brutale attacco di Hamas, si inserisce, pure nella sua complessa profondità, nella rivendicazione da parte della Palestina di un proprio Stato con il relativo territorio, in un’ottica di riconoscimento esterno. Che si tratti di conflitti freddi o caldi, le grandi partite del nostro tempo ruotano attorno alla figura esistente o ricercata dello Stato-nazione.
Quando con il paradigma di San Francisco, ossia la creazione delle Nazioni Unite, si è provato a dare vita ad una governance globale che andasse, in parte, al di là delle prerogative nazionali, il risultato non è stato quello di rendere anacronistica la figura dello Stato, ma il contrario: gli Stati, anche a causa dei fenomeni di decolonizzazione, sono da allora quadruplicati, sino a raggiungere l’odierna cifra di 193. Dopotutto, a creare (e partecipare a) tali organismi sono gli Stati stessi, che mantengono il proprio ruolo di protagonisti. Ragione per cui, lo si diceva per la Palestina, sono diverse le realtà, dal Belucistan a Cipro del Nord, passando per Taiwan, che vorrebbero essere riconosciute come Stati a livello internazionale. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta oggi un caso di studio interessante, soprattutto per il ruolo centrale che ha assunto nella catena dei semiconduttori grazie a TSMC, nonché per i rischi legati ad una potenziale invasione da parte di Pechino: a livello sostanziale Taiwan si presenta come uno Stato vero e proprio, in quanto sovrano sul proprio territorio e indipendente (leggi, esercito, moneta, burocrazie) da altre forze, ma a livello formale non è ancora riconosciuto, tanto che non trova spazio in sede di organizzazioni come l’Onu o in dinamiche diplomatiche, come nel caso delle ambasciate. Da qui l’ambizione ad un riconoscimento come Stato, circostanza osteggiata dalla Cina, che lo ritiene parte del proprio territorio. Infine, a riprova di come la dimensione statale rappresenti il punto di arrivo naturale delle collettività organizzate, persino l’Isis, discostandosi in parte dalla trasversalità tipica del terrorismo religioso, aveva provato a presentarsi come “Stato” islamico, specie per ribadire la propria autorità (e sovranità) nei territori che aveva conquistato, prima di essere poi sconfitto. Questa centralità dello Stato come attore o punto di arrivo non poteva trovare migliore descrizione di quella avanzata da Lorenzo Casini in un recente articolo sul numero 2/2023 della rivista il Mulino: “Ancora oggi è lo Stato la figura che domina lo spazio giuridico globale e che rappresenta il punto di arrivo ‘ontologico’ dei popoli”.
Certo, lo Stato non si muove solitario nello scacchiere internazionale. Il panorama è diventato decisamente più complesso: vi sono multinazionali, ong, organizzazioni sovranazionali, altri attori non statali. Si tratta però, a parere di chi scrive, di una dimensione secondaria e, tendenzialmente, relazionata con quella primaria statale: nel senso che non può essere astratta al di fuori della scomposizione della geografia mondiali in Stati, con relative giurisdizioni, monopoli della forza, confini fisici o immateriali. È vero che nel 2022 la ExxonMobil, colosso petrolifero statunitense, ha fatturato circa 400 miliardi di dollari che, se paragonati ai Pil dei paesi dell’Unione Europea, collocherebbero la corporation prima di Finlandia, Portogallo e Grecia; oppure che multinazionali, grandi imprese digitali, agenzie di rating abbiano assunto un ruolo tale da potere condizionare profondamente alcuni Stati, in particolare quelli più fragili. Ma non si può parlare di mercato in senso astratto, come se fosse una soggettività unica in grado di dettare l’agenda politica; il mercato è un’entità composita, costellata da imprese soggette a diverse giurisdizioni e con interessi sovente contrapposti, più o meno legate con gli Stati di appartenenza, per ragioni territoriali, di sedi ove sono collegati i centri di produzione, di porte girevoli (si pensi ai fitti legami tra società digitali statunitensi e cancellerie militari), di autorità pubbliche regolatrici, di sussunzione dell’attività di impresa nella politica estera. Più che mercato, ci sono enti e imprese statunitensi, francesi, cinesi, giapponesi e via dicendo. Le imprese mantengono una impronta geografica in ultima istanza, pure se nascosta dietro a incroci di partecipazioni societarie e vari arbitraggi fiscali; difficilmente prescindono dalla realtà statuale di riferimento: Google e Amazon sono americane, Tencent e Alibaba cinesi. E partecipano alla competizione tra le due superpotenze.
In passato vi sono state imprese capaci di ergersi quasi allo stesso piano degli Stati. Si pensi alle Compagnie delle Indie Orientali, che avevano addirittura le proprie forze armate, l’elemento che più avvicina un’entità alle prerogative sovrane. Per circa due secoli le Compagnie delle Indie furono protagoniste, con margini di autonomia molto ampi, delle strategie imperiali dei rispettivi governi, in una commistione di diplomazia ibrida, profitti privati e interessi pubblici. Le domande in merito ai motivi per cui questi “Stati negli Stati” non si siano ritagliati una vera e propria soggettività vestfaliana, distaccandosi dalla Corona o comunque subordinandola a sé, hanno da sempre accompagnato la letteratura sul tema. Questo perché, a posteriori, possiamo certamente dire che la Gran Bretagna come Stato e attore vestfaliano esiste ancora, mentre la Heic no (fallita nel 1857), così come la Voc (fallita nel 1799, dopo essere stata in ogni caso nazionalizzata nel 1796) rispetto all’Olanda. Sicché, la grande esperienza delle corporation, dotate pure di eserciti propri, non è riuscita a scalfire le profonde radici dell’entità statuale. Si pensi, inoltre, sotto diversa prospettiva, alla possibilità degli Stati di intervenire tramite l’arma giuridica dell’antitrust per limitare il potere di un’impresa, sino a scinderla se necessario. Il caso forse più eclatante è quello della compagnia telefonica AT&T, l’azienda più grande al mondo nel 1974. Emblema del monopolio statalista, la compagnia controllava servizi telefonici locali, servizi a lunga distanza, telefoni fisici e tutti i relativi accessori, servizi telefonici per le imprese oltre ad una serie di mercati emergenti, tra cui quello dei servizi online. Il Dipartimento di giustizia intentò la causa antitrust forse più lunga e complessa della storia, che si risolse in uno scorporamento di AT&T in 8 imprese più piccole. Un precedente importante, anche nell’ottica del nuovo contesto segnato dal potere dei grandi colossi digitali, da Google a Amazon, da Facebook a Apple. La mera possibilità di scindere un’impresa è indicativa di come lo Stato, con il proprio armamentario, rimanga ancora protagonista a pieno titolo. In un bellissimo libro uscito di recente, Underground Empire, Henry Farrell e Abraham Newman hanno evidenziato questa realtà prendendo come riferimento il caso degli Stati Uniti. Ad esempio, sulla partita tra ambizioni di decentralizzazione da parte dei soggetti privati e sovranità statale (si pensi alle cryptocurrency o comunque a monete alternative come la fallimentare Libra di Meta o ai margini di manovra di Microsoft), hanno sottolineato come: “After decades of imagining that they lived in decentralized, borderless world, business again find themselves constrained by governments”.
Se è vero, dunque, che lo scacchiere globale è diventato più complesso, che non sempre le imprese agiscono in accordo con la realtà statuale di riferimento e che vi sono comunque diversi gradi di sovranità (gli Stati Uniti non sono la Grecia), la dimensione statale rimane ad oggi quella che più rappresenta il cuore delle dinamiche internazionali. Lo Stato come attore, punto di arrivo e potere sovrano. Tant’è che nemmeno il più ambizioso tentativo di superare i presupposti dello Stato nazionale, ossia l’Unione europea, ha raggiunto del tutto tale scopo. Dopotutto, come recita l’art. 4 del Trattato sull’Unione europea, “la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro”. E per la sicurezza nazionale passa la sovranità nell’eccezione, ma questa è un’altra storia, che meriterebbe un discorso a sé.