È essenziale che l’Italia intensifichi i suoi sforzi, in collaborazione con gli altri Stati membri, per promuovere un’integrazione economica più profonda. Questo comporta l’adozione di politiche coordinate che mirino al benessere dell’intera Unione, anche attraverso l’identificazione e valorizzazione delle specifiche competenze e opportunità offerte da ciascun Paese. L’analisi dell’economista Pasquale Lucio Scandizzo
Il contesto internazionale è in una fase di turbolenza senza precedenti. Gli esperti stanno cercando di prevederne l’evoluzione, ma la situazione è complicata dalle tensioni geopolitiche e dalle sfide epocali del XXI secolo. Economia e politica si intrecciano in modi imprevisti, rendendo difficile prevedere le conseguenze delle turbolenze in corso. Nel tentativo sempre più arduo di interpretare i segnali offerti dalle statistiche, gli schemi e le proiezioni dei modelli econometrici si differenziano da quelli dei modelli strutturali, basati sulle teorie dell’equilibrio economico generale o sulle sue varianti dinamiche. Mentre questi ultimi non presentano distorsioni dovute all’aggregazione di dati storici o alla tendenza a proiettare profili di comportamento superati dagli eventi, essi non possono però confrontare i loro risultati con le correlazioni osservate se non nel corso del tempo e attraverso il paragone di scenari complessi e di difficile interpretazione. Per questa ragione, i modelli strutturali, che pur vengono intensamente utilizzati dalle istituzioni internazionali, si focalizzano principalmente sull’analisi a lungo termine e sulle cause sottostanti delle previsioni, soprattutto in un quadro sistemico dove le relazioni tra i vari Paesi rivestono un ruolo centrale.
La maggioranza dei modelli econometrici utilizzati dalle istituzioni internazionali anticipa una crescita del Pil globale attorno al 3% per i prossimi due anni, ossia da uno a due punti percentuali al di sotto dell’andamento storico recente. Di fronte a questa tendenza, si prevede che l’economia italiana cresca solo tra lo 0,7% e lo 0,8% nello stesso lasso di tempo. Tale previsione è parzialmente influenzata da indicatori di breve termine poco promettenti: dopo un inizio d’anno caratterizzato da una crescita solida, l’andamento economico ha infatti mostrato segni di affievolimento, in particolare nei settori delle costruzioni e della manifattura, ma ultimamente, anche dei servizi. Anche le prospettive relative alle esportazioni e agli investimenti non sono positive. Questa tendenza è in gran parte legata al calo della domanda interna, causata sia dallo svanire degli effetti delle misure di stimolo economico sia dal ridimensionamento degli investimenti privati, nonostante le opportunità presentate dal piano di ripresa. Quest’ultima dinamica è particolarmente allarmante, in quanto influisce sulle prospettive a medio e lungo termine. La situazione è aggravata dal persistere di debolezze strutturali, dall’aumento dei tassi di interesse e da un clima di pessimismo e riluttanza al rischio.
Ciò detto, e con riferimento alle ultime analisi di varie fonti, tra cui in primo luogo il Fondo Monetario Internazionale, c’è da osservare che esse riflettono un consenso diffuso tra gli operatori che dipende da opinioni e timori e tende ad anticipare, se non a condizionare, le stime prodotte dai modelli, per quanto questi ultimi possano apparire indipendenti e raffinati. Queste stime sono inoltre parte di un discorso pubblico che tende ad imporsi anche in virtù del cosiddetto “sentimento dei mercati” e della percezione di una narrativa corrente su ciascun Paese e sugli scenari globali. Dal punto di vista dell’Italia, questa narrativa riflette il fatto che, nel corso della vasta e complessa storia economica del Paese, l’economia, misurata in termini di Pil, ha conosciuto percorsi discontinui di rapida crescita seguiti da lunghi periodi in cui ha perlopiù mantenuto un passo modesto. Negli ultimi vent’anni, in particolare, l’economia italiana ha dato l’impressione di essere vittima di una sorta di “trappola regionale”, che riflette al livello europeo la trappola economica in cui sembra storicamente colto il Mezzogiorno italiano. Questa trappola, caratterizzata da debolezze strutturali che determinano comportamenti che a loro volta ne aggravano dimensioni e conseguenze, è risultata in una crescita asfittica che ha mostrato oscillazioni attorno o al disotto dell’1% all’anno, spesso con fluttuazioni così piccole da rendere difficili distinguerle da errori di misura. Questo andamento è parso anche accompagnarsi a dinamiche della produttività e della popolazione sostanzialmente stagnanti, con tendenze al declino.
Qualunque sia la prospettiva temporale interessata, i modelli strutturali mettono in luce come la questione della produttività in Italia sia un punto nodale per l’Italia. La tendenziale stagnazione della produttività dei fattori crea infatti un problema che non può essere risolto semplicemente attraverso la tecnologia o una migliore organizzazione delle attività pubbliche. La vera sfida è intraprendere investimenti strategici capaci di rompere i circoli viziosi insiti nella “trappola regionale” in cui il Paese sembra essersi cacciato. Per questi investimenti si aprono ampi spazi soprattutto per processi trasformativi quali la transizione verde e la transizione digitale, settori in cui l’allocazione di risorse pubbliche è stata potenziata dalla recente revisione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), che però deve confrontarsi con la sfida di mobilitare una massa molto più grande di investimenti privati. Secondo le simulazioni dei modelli strutturali, gli investimenti del Pnrr potrebbero determinare una differenza significativa sia sulla domanda, sia sulla offerta e la produttività totale dei fattori. Gli effetti attesi per il periodo di spesa degli investimenti sembrano ridotti dai ritardi accumulati (dell’ordine di 20 miliardi di euro o più per il 2020-2023), e dalla parallela compressione dei consumi e degli investimenti privati dovuta agli alti tassi di interesse imposti dalla Bce. Nel medio-lungo termine, tuttavia, la realizzazione anche ritardata degli investimenti stessi offrirebbe all’Italia una opportunità imperdibile di “uscire dalla trappola” della stagnazione regionale.
Mantenere il focus della politica economica sul medio-lungo termine è essenziale per puntare a una performance caratterizzata da tassi di crescita superiori a quelli storici, non in virtù di effimere, anche se a volte necessarie, politiche di sostegno della domanda, ma grazie all’aumento della produttività derivante dal rinnovo delle infrastrutture pubbliche e dall’adozione estesa e intensiva delle nuove tecnologie. Se a questo non si aggiungessero le riforme previste dal Pnrr, tuttavia, l’impatto di un pur apparente successo di realizzazione degli investimenti previsti, potrebbe essere deludente. In Italia, tutti i settori, e particolarmente quelli dei servizi, presentano barriere regolamentari più consistenti rispetto a molte altre economie avanzate, con pesanti ricadute negative sulla produttività. Molti modelli strutturali, tra cui quelli del Fondo Monetario e alcuni modelli sviluppati per la Pa per la valutazione del Pnrr, mostrano infatti che l’ambiente normativo ha un impatto significativo sulla produttività dei settori e sulla dinamica di ingresso e uscita delle imprese in Italia. In particolare, una regolamentazione meno onerosa può favorire la concorrenza, riducendo gli utili monopolistici e stimolando la riallocazione delle risorse verso imprese più produttive. Inoltre, una regolamentazione meno complessa e più attenta alle conseguenze economiche può incentivare gli investimenti in capitale basato sulla conoscenza, che sono fondamentali per la crescita della produttività.
Gli ordini di grandezza che diversi studi mostrano a proposito dei risultati di queste riforme sulla crescita, la produttività e l’occupazione in Italia sono più che rilevanti. Ad esempio, una riduzione dei margini nel settore dei servizi ai livelli di altre nazioni euro potrebbe portare ad un aumento del Pil italiano da un minimo del 9% a un massimo del 15% nel lungo periodo, con metà di questo incremento previsto nei primi tre anni. Altre ricerche indicano che allineare la regolamentazione del mercato dei prodotti in Italia alle migliori pratiche internazionali potrebbe aumentare la produttività del lavoro di circa il 14% in un decennio.
Più in generale, aspettative e realizzazioni per il futuro prossimo e a lungo termine saranno influenzate dalla capacità delle strategie economiche di catalizzare e amplificare la collaborazione tra le realtà economica italiana, europea e mondiale. Sebbene l’Italia sia profondamente intrecciata con le dinamiche economiche europee, vi è una diffusa percezione che essa si collochi come il punto più delicato dell’Unione. Tale visione potrebbe nascere da un’integrazione non pienamente efficace all’interno dell’ecosistema economico europeo, in una realtà dove le catene del valore si estendono oltre le frontiere nazionali, ma le decisioni politico-economiche sono ancora troppo legate a una prospettiva nazionalistica. In risposta a questa situazione, è essenziale che l’Italia intensifichi i suoi sforzi, in collaborazione con gli altri Stati membri, per promuovere un’integrazione economica più profonda. Questo comporta l’adozione di politiche coordinate che mirino al benessere dell’intera Unione, anche attraverso l’identificazione e valorizzazione delle specifiche competenze e opportunità offerte da ciascun Paese. È inoltre fondamentale sviluppare una solida capacità di governance fiscale e un efficace sistema di investimento pubblico a livello europeo, per rispondere in maniera coordinata alle sfide economiche senza precedenti del nuovo millennio.