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Fini non giustifica i mezzi, troppa fretta sulla svolta repubblicana. Ma è così?

Affermare che tredici anni fa la destra italiana non fosse pronta alla svolta repubblicana equivale a emanare una sentenza troppo dura, a tratti ingiusta: una sentenza che condanna senza appello il segretario e assolve il partito con formula piena. Ma è davvero così? Il commento di Angelo Ciardullo

“In politica sbagliare i tempi è come sbagliare le mosse a scacchi: è stato un errore che non perdono a me stesso”. E meno male che doveva essere un’intervista sull’affaire Giambruno. Conversando con la cronista di Repubblica Giovanna Casadio a margine della presentazione dell’ultimo libro di Paolo Macry (La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni, edito da Laterza), Gianfranco Fini si lascia andare ad uno sfogo fin troppo amaro sul suo passato politico: “È stato un errore che non perdono a me stesso puntare alla creazione di una destra repubblicana dopo la nascita del Pd e per superare il Polo delle Libertà a tre gambe”, dice oggi l’ex leader di Alleanza nazionale.

Ma è davvero così? Non è che, per caso, il rammarico per la grande occasione mancata ha preso il sopravvento sulla lucidità politica che – tolta la controversa parentesi Tulliani – da sempre contraddistingue l’uomo? Affermare che tredici anni fa – all’indomani di quell’ormai proverbiale “Che fai, mi cacci?” indirizzato al Cavaliere a beneficio di telecamere durante la direzione nazionale del PdL – la destra italiana non fosse pronta alla svolta repubblicana equivale a emanare una sentenza troppo dura, a tratti ingiusta: una sentenza che condanna senza appello il segretario e assolve il partito con formula piena. Ma, ancora una volta, è davvero così?

Quello che certamente fallì fu l’effimero esperimento di Futuro e Libertà. Quello che senza dubbio mancò da quel momento in poi fu la leadership di un Gianfranco Fini sempre più isolato dai suoi pretoriani – complice “quer pasticciaccio brutto” di Boulevard Princesse Charlotte 14, indirizzo della famigerata casa di Montecarlo – fino all’ultima, fragorosa batosta elettorale del 2013. Dichiarare che i tempi per un cambio di rotta non fossero ancora maturi non è perciò del tutto esatto. Più corretto forse dire che a maturare troppo in fretta era stato lui, se poi di “maturazione” e non di “tradimento” – come fa la quasi totalità dei suoi ex compagni (absit) di partito – si vuol proprio parlare.

All’epoca dei fatti – lo ricordiamo per amor di verità – nessuno osava ancora mettere in discussione il “primato petrino” di Silvio Berlusconi all’interno del centrodestra: con un Bossi già incamminato sul viale del tramonto e un Fini alle prese con intermittenti deliri di onnipotenza, poi, il gioco per l’uomo di Arcore era ancora più semplice. Difficile, in un simile contesto, azzardare esperimenti di rifondazione ideologica. Difficile, dunque, ma non impossibile.

Anni prima, proprio Gianfranco Fini era riuscito in un’impresa ben più ardua: traghettare la destra post-fascista da Salò a Fiuggi. “Sdoganato” dal Cavaliere davanti a una Standa nuova di zecca a Casalecchio di Reno, il delfino di Giorgio Almirante aveva prima sfiorato una clamorosa elezione a sindaco di Roma nel ‘93 (venne sconfitto al ballottaggio da Francesco Rutelli, pur con un ragguardevole 46,9%) e poi preso per mano il popolo errante del Msi per condurlo nella terra promessa dell’“arco costituzionale”. E scusate se è poco.

Da allora, assieme ai suoi colonnelli, il segretario della nuova Alleanza nazionale intraprese una lunga gavetta dentro i palazzi del potere che – passando per la Farnesina – lo condusse fino allo scranno più alto di Montecitorio, da dove finì per precipitare rovinosamente dopo le nefaste elezioni del 2013.

Nel frattempo, c’era stato lo Yad Vashem e la condanna del Fascismo come “male assoluto”: una presa di distanza netta e coraggiosa dalle leggi razziali emanate da quel regime mussoliniano di cui il Movimento sociale era divenuto promanazione con l’avvento della Repubblica. Un passo forse più lungo della gamba, come ebbero a certificare le stizzite reazioni dei tanti nostalgici ancora presenti tra le file di An, a cominciare dalla pasionaria nipote del Duce. Così come passi più lunghi della gamba risultarono l’esprimersi in favore del voto agli immigrati o dell’apertura a fecondazione assistita e diritti delle coppie omosessuali. Tutti gesti solitari di un leader divenuto giorno dopo giorno sempre più autoreferenziale, come racconta in maniera egregia Piero Ignazi nel suo Il polo escluso recentemente ristampato.

Ma era la destra a non essere pronta, o i temi in ballo a non essere “di destra”? perché qui sta il punto. Quanto è diversa oggi la posizione degli eredi della Fiamma – ovvero quei Fratelli d’Italia nati proprio in opposizione al tradimento finiano – su queste stesse tematiche? A giudicare dal celeberrimo “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, si direbbe: ben poco. Ma da quelle parole urlate con rabbia dal palco di San Giovanni sono trascorsi quattro anni, Berlusconi non è più di questo mondo, la destra governa da protagonista e non più da comprimaria e anche lei, Giorgia Meloni, è un po’ cambiata. Non tantissimo, ma un po’ sì.

C’è dunque speranza? A sentire Fini e il suo confiteor a Repubblica, sembrerebbe di sì: “È oggi – dice il padre nobile (ripudiato) dei Fratelli d’Italia – che si può dare vita a quella destra conservatrice e repubblicana: è Giorgia Meloni che, in prospettiva, può farlo”. Staremo a vedere.

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