Perché il vento che soffia sul Vecchio continente sembra voltare le spalle a Vox in Spagna, al PiS in Polonia e presumibilmente ai Tories in Gran Bretagna, mentre qui da noi Giorgia Meloni viaggia a gonfie vele?
Perché in Europa la destra va male e in Italia Fratelli d’Italia governa incontrastata? È questa la domanda che da mesi toglie il sonno ai migliori tra i nostri analisti politici. Perché, ci si chiede, il vento che soffia sul Vecchio Continente sembra voltare le spalle a Vox in Spagna, al PiS in Polonia e presumibilmente ai Tories in Gran Bretagna, mentre qui da noi Giorgia Meloni viaggia a gonfie vele?
Due sono le precisazioni che occorrono prima di tentare di fornire una risposta. La prima: a dispetto delle alleanze extra-territoriali con i soggetti politici in questione – tra loro, peraltro, molto diversi – Fratelli d’Italia non può (più?) definirsi un partito di estrema destra avendo messo in moto un meccanismo di riallineamento sulle frequenze del conservatorismo più tradizionale. La seconda: quando si parla di destra italiana si fa riferimento non tanto al governo quanto in principal modo a Giorgia Meloni e al suo partito. Dimostrazione plastica di questa dicotomia arriva dall’ultimo sondaggio Quorum/YouTrend per SkyTg 24, secondo il quale il 55% degli italiani esprime giudizi negativi sull’esecutivo mentre il gradimento per la premier sale al 36% e le intenzioni di voto in favore di FdI si attestano al 29,8% con una crescita seppur frazionale dello 0,2% nell’ultima settimana. E c’è ancora da scontare l’effetto Giambruno.
Fatte queste brevi premesse, la soluzione dell’annosa questione potrebbe essere ancora più semplice di quanto si immagini: Giorgia Meloni piace non perché è di destra ma semplicemente perché è Giorgia Meloni. In un contesto politico ormai interamente caratterizzato da partiti “personali” senza sostrato ideologico, la presidente del Consiglio incarna (evidentemente meglio di altri) ciò che gli elettori cercano in questa fase di grande incertezza: un premier decisionista, con in più un tratto “umano” ben visibile.
Certo, si potrà obiettare, a rendere tutto più facile è il vuoto pneumatico che alberga dall’altra parte della barricata: il centrosinistra è completamente atomizzato, il centro non esiste e – aggiungerebbe a questo punto Woody Allen – “anche io non mi sento molto bene”. Eppure, questa considerazione non può bastare da sola a giustificare una luna di miele post-elettorale che si protrae ormai da un anno in barba ai proverbiali “primi 100 giorni di governo”.
Si prendano ad esempio le ultimissime elezioni locali. Escludendo le suppletive di Monza, dove Adriano Galliani ha ereditato senza sorprese e con commossa gratitudine il seggio senatorio dell’amico Silvio, e le comunali di Foggia, reduce da due anni di commissariamento per infiltrazioni mafiose, una piccola ma significativa cartina di tornasole è rappresentata dal voto delle province autonome di Trento e Bolzano.
In Alto-Adige il tracollo del Südtiroler Volkspartei ai minimi dal 1948 sarà pure una questione geopolitica regionale, ma il risultato di Fratelli d’Italia – che triplica i consensi e supera il Carroccio, sceso dall’11 al 3% – è un dato di rilievo nazionale. Anche perché – sempre a proposito di risultati storici – è la prima volta dal Dopoguerra che gli eredi di quella Fiamma tricolore storicamente contraria all’autonomia sudtirolese si aggiudicano addirittura la palma di primo partito italofono della provincia.
Discorso similare vale per il capoluogo tridentino, dove il leghista Maurizio Fugatti è stato riconfermato senza grossi patemi alla guida della provincia ma FdI è lievitato dall’1,45 al 12% e si prepara a passare all’incasso intestandosi la vicepresidenza. Certo, sulla performance della Lega può aver pesato la concorrenza del grande ex Sergio Divina: e tuttavia, anche sommando il 13% del partito di Salvini e il 2% del candidato scissionista si resta ben lontani dal 27% di cinque anni fa.
Troppo influenti le dinamiche locali, si obietterà, impossibile fare un bilancio sugli equilibri interni al governo. Vero. Ma così sarà almeno fino a giugno dell’anno prossimo, quando la “nobilitate” della maggioranza “si parrà” nelle urne delle Europee: tolto l’antipasto delle regionali in Abruzzo, Sardegna e Basilicata – amministrate rispettivamente da FdI, Lega- Psd’Az e Forza Italia – sarà difatti quello il primo, vero banco di prova.
Da qui a giugno, lo scivolone è dietro l’angolo. Molteplici i fattori di rischio: fibrillazioni interne alla maggioranza (Salvini è già sul piede di guerra, pronto a far scattare un temutissimo Papeete 2.0); sfiducia o dimissioni di un singolo ministro (il che non comporta in automatico la caduta del governo ma certo rappresenterebbe uno “stigma”, per riprendere un termine tanto caro alla premier); possibili attriti con Bruxelles sulla manovra o la ratifica del Mes, e via di questo passo. Ce n’è per tutti i gusti, insomma. In questo orizzonte ancora lontano e nebuloso, un solo dato appare oggi nitido: a interrompere la luna di miele tra Giorgia Meloni e gli italiani non saranno certo le opposizioni.