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Egitto, Russia, Cina e non solo. Il reticolo di posizioni su Israele secondo Bellodi

Un attacco armato non è mai giustificato soprattutto se perpetrato nei confronti di civili inermi. Una soluzione diplomatica deve essere trovata. Ma oltre agli Stati Uniti, le reazioni della comunità internazionale non sembrano essere unite. L’analisi di Leonardo Bellodi

È la Pearl Harbor israeliana. Ora come allora, uno dei più efficaci eserciti del mondo e una delle più sofisticate agenzie di intelligence si sono fatti cogliere di sorpresa e hanno permesso al nemico storico di penetrare, con mezzi rudimentali quali le ruspe e i parapendii a motore, barriere che sono costate miliardi di dollari e vengono sorvegliate da altrettanti costosi sistemi elettronici.

E non sono i soli a essersi sbagliati. In un rapporto di agosto, appena due mesi fa, l’intelligence di un Paese storicamente vicino a Israele scriveva che i flussi di denaro e di armi provenienti dall’Iran verso il West bank, passando dai porosi confini di Siria e Giordania, erano in aumento. E fin qui ci siamo. Ma il rapporto si concludeva dicendo che Hamas avrebbe cercato di fomentare attacchi terroristici dal West bank e Gerusalemme evitando attacchi da Gaza al fine di conservare una situazione di relativa calma, evitare azioni nei confronti degli abitanti e mantenere aperti i varchi di confini consentendo all’economia del territorio di funzionare. Inoltre, gli attacchi dal West bank avrebbero messo in difficoltà l’autorità della Palestina (che governa il settore) che da molti anni si contrappone ad Hamas. Purtroppo l’analisi si è rivelata profondamente errata. Si dice che i servizi egiziani avessero dato un qualche warning ai colleghi israeliani. Ammesso che sia vero, spesso questi messaggi sono troppo generici per capire da dove viene il pericolo e dunque a maggior ragione di prevenirlo.

Il risultato è che l’operazione “Al Aqsa Flood” si sta rivelando la più cruenta e letale da decenni a questa parte. Un’operazione che forse non a caso cade esattamente dopo cinquant’anni da un altro attacco che ha colto Israele di sorpresa: la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre del 1973 lanciata da Egitto e Siria. Con una differenza non di poco conto. Allora si erano fronteggiati eserciti di Stati sovrani. Oggi un’organizzazione terroristica non governativa ha attaccato civili inermi a testimonianza di un trend purtroppo consolidatosi in questi anni: le guerre sono sempre meno convenzionali e sempre più asimmetriche.

Hamas (acronimo di Ḥarakat al-Muqāwamam al-Islāmiyya, movimento di resistenza islamica) è infatti un gruppo che nasce negli anni 80 come costola militare dei Fratelli musulmani e che di fatto governa Gaza dopo il ritiro israeliano nel 2005 dal territorio. Si contrappone da sempre al partito Fatah maggioritario nell’Olp, l’organizzazione per la liberazione della Palestina e che governa il West bank. Gli Stati Uniti, l’Unione europea e altri Stati considerano, a ragione, Hamas un’organizzazione terroristica.

L’Egitto è stata la tradizionale base di Hamas fino al 2003, quando è salito al potere Abdel Fattah al-Sisi ed il movimento è divenuto non grato dal momento che il nuovo governo lo percepiva come affiliato al nemico interno numero uno: i fratelli musulmani.

L’esercito egiziano ha così chiuso numerosi tunnel che permettevano il trasporto di armi e altre merci dall’Egitto a Gaza. Con tutta evidenza, molti di questi tunnel sono ancora in funzione dal momento che è attraverso di essi che Hamas si rifornisce.

Hamas, in modo discreto e purtroppo altrettanto efficace, è riuscita dunque a orchestrare un’azione via mare, terra e aria. Il mondo si chiede cosa succederà ora. Gli apparati governativi israeliani ammettono che è la prima volta che si trovano di fronte a una situazione di questo genere anche perché il numero di cittadini tenuti in ostaggio nel reticolo di tunnel di Gaza è impressionante e rende complicata un’azione di terra.

L’altra domanda è se ci sarà un’escalation nella regione e quale sarà la reazione delle “grandi potenze” per usare un’espressione un po’ desueta e che sicuramente non coglie la complessità che caratterizza l’attuale scacchiere internazionale.

Alcuni osservatori puntano il dito contro il principale indiziato,  l’Iran, che pur avendo applaudito l’offensiva, ha negato ogni coinvolgimento. È però altresì vero che nei mesi scorsi si sono tenuti alcuni incontri tra il generale Esmail Qaani, leader dei guardiani della rivoluzione islamica e i leader di Hamas, Hezbollah e della Jihad islamica. E numerosi missili sono stati lanciati in direzione di Israele anche dal Libano, dove Hezbollah, tradizionale alleato di Hamas, ha il suo quartier generale. Gli Stati Uniti, attenti a non alimentare nuove tensioni, hanno dichiarato che al momento non esistono le prove di un ruolo dell’Iran. Non sono però poche le voci all’interno del partito repubblicano statunitense che chiedono nuove sanzioni nei confronti del Paese.

Arabia Saudita e Qatar hanno rilasciato dichiarazioni che erano di comprensione, per usare un eufemismo, della causa palestinese piuttosto che di condanna dell’attacco. È presto per dire se ciò metterà in discussione l’adesione di Riad agli accordi di Abramo e la cooperazione del Qatar con gli Stati Uniti che vedono Doha garante della lotta che i talebani stanno conducendo contro Al Qaida.

E poi c’è la Russia, che nel corso della guerra (perché di questo si tratta) all’Ucraina ha rafforzato i legami con l’Iran ed ha tutto l’interesse affinché il mondo occidentale rivolga attenzioni e aiuti militari altrove.

Infine, la Cina. Non a caso il ministro degli Esteri cinese ha dichiarato che Israele e la Palestina (non citando Hamas né la parola palestinesi) devono cessare le ostilità. In Cina nulla è mai detto a caso e la dichiarazione sembra essere a favore della soluzione dei “due Stati”.

Insomma vi è un reticolo di posizioni ognuna delle quali persegue un interesse diverso. La comunità internazionale non sembra essere unita nemmeno di fronte a tale tragedia.

Un attacco armato non è mai giustificato soprattutto se perpetrato nei confronti di civili inermi. Una soluzione diplomatica deve essere trovata. Ma per far questo occorre non fornire facili e suggestivi pretesti agli aggressori. Ed è per tale ragione che Israele dovrebbe porsi il tema se non sia arrivato il momento di dare esecuzioni alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.



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