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Israele-Hamas, il pozzo dell’informazione è inquinato. Parla Caniglia (AC)

“Nel contesto di un conflitto complesso come questo, con una grande quantità di attori coinvolti con agende diverse e anche in contrasto tra loro, le fragilità di Paesi come l’Italia aumentano e su queste si inseriscono tentativi di manipolazione”, spiega Mattia Caniglia, associate director for capacity building del Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council

“Nel contesto del conflitto tra Israele e Hamas stiamo assistendo a una netta divisione nella scelte comunicative: le Forze di difesa israeliane sono su X, l’ex Twitter; Hamas ha una chiara strategia per massimizzare le possibilità di Telegram; tanti giornalisti di Gaza stanno facendo molto affidamento su Instagram”. A spiegarlo è Mattia Caniglia, associate director for capacity building del Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council.

Il canale Telegram delle Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas, ha visto il suo seguito triplicarsi dal giorno dell’attacco a Israele e le visualizzazioni dei contenuti sono decuplicate, passate dalle 25.000 alle oltre 290.000. È la piattaforma del conflitto?

In questo scenario Telegram sta avendo un ruolo simile a quello che ha nel contesto dell’aggressione russa dell’Ucraina ma rafforzato, forse anche perché Hamas ha fortemente incentrato la sua strategia di comunicazione su questo strumento. Ciò è reso possibile anche dalle politiche di Telegram che nei giorni scorsi, tramite il fondatore e amministratore delegato Pavel Durov, ha spiegato di non voler vietare Hamas, che è definita da Stati Uniti e Unione europea come organizzazione terroristica, dalla piattaforma perché finora ha dimostrato di utilizzarla anche con scopo informativo. La mancanza di una solida moderazione di Telegram serve bene gli scopi delle fazioni militanti che cercano di diffondere propaganda su larga scala. Il rifiuto della piattaforma di moderare ha fatto sì che i canali affiliati a Hamas e a Israele abbiano potuto condividere una grande quantità di contenuti grafici, compresi quelli eccessivamente cruenti, e appelli alla violenza. I canali affiliati a Hamas che esistono da pochi anni, tra cui Al Qassam Brigades e Gaza Now, hanno registrato picchi enormi di follower. Anche il canale di Hezbollah, che aveva registrato un calo costante, è tornato a salire in pochi giorni. Anche gli account X governativi israeliani hanno registrato un forte aumento di follower, ma non nella stessa misura dei canali Telegram affiliati a Hamas.

Da Telegram i contenuti arrivano poi sui social e sui media tradizionali.

Tendenzialmente funziona così: Telegram, poi TikTok, e ancora X, infine Instagram e i media tradizionali. Questo ciclo rende più difficile verificare fonti e veridicità amplificando i problemi legati all’attribuzione e al tracciamento. Anche per questo motivo, è difficile e prematuro valutare la portata dei contenuti attraverso ciascuna piattaforma.

Parlando di regolamentazione delle piattaforme, questa crisi internazionale si svolge nel primo periodo di entrata in vigore del Digital Services Act. Serve una nuova Christchurch Call?

È importante ricordare che quell’iniziativa fu in primis lanciata da attori occidentali in risposta a un’ondata di terrorismo che aveva coinvolto il mondo digitale (social media e piattaforme di messaggistica) con delle modalità senza precedenti. Oggi non credo ci sia un allineamento simile e un momento politico favorevole. Basti pensare a quanto la moderazione dei contenuti è centrale nel dibattito politico statunitense prima delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Inoltre, nell’attuale clima di polarizzazione a livello globale gli sforzi di multilateralismo non stanno attraversando un periodo felicissimo. Bisognerà però riprendere lo spirito della Christchurch Call e rilanciare la spinta per un cambiamento sistematico, l’alternativa è desolante. A oggi molti occhi, non solo in Occidente, guardano a come verrà implementato il Digital Services Act.

Un elemento fortemente polarizzante è stato quello che Hamas ha definito un bombardamento contro l’ospedale al-Ahli a Gaza City da parte di Israele con la complicità degli Stati Uniti, che ha causato 500 morti.

Per il materiale che abbiamo visionato finora, che comunque non ci porta a dare una risposta definitiva, con una probabilità assai alta nessuna di queste tre informazioni è verificata: non sembra essersi trattato di un bombardamento, il coinvolgimento delle Forze di difesa israeliane con la complicità degli Stati Uniti sembra dubbio, i morti non sembrano essere 500. È utile, però, ricostruire le dinamiche di diffusione online di questa notizia e delle sue smentite. Quella prima dichiarazione di Hamas è stata ripresa dai media di alcuni Paesi arabi che hanno accusato le Forze di difesa israeliane. A quel punto, per stare nel ciclo informativo e contrattaccare, le Forze di difesa israeliane hanno diffuso un footage per rigettare le accuse e addossare la colpa a Hamas. Tuttavia, ricercatori e specialisti hanno scoperto che il video prodotto da Israele presentava delle incongruenze. E ciò ha alimentato la versione di Hamas. Poi è spuntata la versione del razzo della Jihad islamica palestinese, peraltro sostenuta anche da Project Owl, realtà Osint che lavora con il New York Times. Tutto ciò è effetto ma anche causa di polarizzazione che vediamo sulle piattaforme di messaggistica, sui social e anche sui media tradizionali. Il pozzo dell’informazione è completamente inquinato, il livello di manipolazione è potenzialmente ampissimo. Nel contesto di un conflitto complesso come questo, con una grande quantità di attori coinvolti con agende diverse e anche in contrasto tra loro, le fragilità di Paesi come l’Italia aumentano e su queste fragilità si inseriscono tentativi di manipolazione.

Ciò che colpisce è la velocità. C’è addirittura chi ritiene che, anche se la responsabilità non è di Israele, Israele ha perso per via dell’ampia diffusione della versione di Hamas.

La velocità con cui stiamo assistendo alla diffusione di disinformazione, misinformazione e harmful content su Israele e Hamas è senza precedenti. Al momento, sulle piattaforme dei social media e sulle app di messaggistica circola una quantità spropositata di contenuti che includono vecchi filmati di questo e di altri conflitti, informazioni non verificate e contenuti grafici, che potenzialmente alimentano l’odio e incitano a ulteriori violenze. Ci sono anche molti contenuti che includono speculazioni su ciò che potrebbe essere accaduto o meno e su ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni insieme a una discreta quantità di contenuti grafici che includono varie forme di violenza estrema che stiamo ancora vagliando per determinarne la veridicità.

Oltre alla velocità, c’è la quantità di dati.

La mole di informazioni che abbiamo processato al Digital Forensic Research Lab in queste due settimane è paragonabile a quella che elaboriamo solitamente in tre o quattro mesi monitorando lo spazio informativo e digitale nel contesto dell’aggressione russa dell’Ucraina. Inoltre, c’è molto rumore di fondo. L’enorme quantità di contenuti, indipendentemente dalla loro veridicità, rende molto difficile identificare i casi di disinformazione o attribuire possibili information operation in questo momento. Sono in corso sforzi di verifica dei contenuti da parte di diverse organizzazioni, ma la quantità di contenuti discutibili e la velocità con cui circolano superano di gran lunga questi sforzi di verifica.

E il ciclo delle news?

È andato completamente in tilt per l’ansia di dare le notizie, di arrivare prima anche senza verificarle. C’è un forte inquinamento del contesto informativo e digitale che porta polarizzazione e aumentare la polarizzazione significa aumentare la possibilità che dalla violenza online si passi alla violenza nella realtà. E se si aggiunge quanto accaduto dopo l’attentato di Bruxelles, con i media che suggerivano erroneamente un collegamento tra quell’attacco e ciò che sta accadendo in Israele e Palestina, ecco che si crea lo spazio per l’emulazione, con il rischio che più soggetti radicalizzati passino all’azione.

Ci sono attori che stanno inquinando il contesto informativo e digitale per alimentare la polarizzazione in Occidente?

È presto per dirlo. Ma in passato abbiamo visto che operazioni informative condotte da attori statali e non statali hanno bisogno di opportunità da cogliere. Funzionano meglio quando si innestano su argomenti e temi che fanno già parte del discorso politico di un Paese o che sono già presenti nel ciclo delle notizie. Oggi la quantità di contenuti rende difficile individuare operazioni informative ma il contesto apre spazi di fragilità che possono essere sfruttati per operazioni di influenza e disinformazione.


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