L’aggressione di un giovane radicalizzato a un insegnante del liceo sembra essere il primo attentato jihadista in Europa dall’esplosione del conflitto in Israele. Ma il fondamentalismo islamico non è mai sparito, ricorda l’esperto di estremismo: oggi è online e segue la grammatica social, e Hamas lo sa bene. Ora attenzione all’innesco del circolo vizioso di odio, specie nei confronti della comunità ebraica
Venerdì mattina, in un liceo nel nord della Francia, è successo quello che gli ufficiali hanno descritto come un attentato di matrice jihadista. Sarebbe il primo avvenuto in Europa dopo l’attacco di Hamas contro i cittadini israeliani. Un ex studente ventenne ha accoltellato e ucciso un insegnante, ferendo gravemente almeno altre due persone prima di essere fermato dalle forze dell’ordine. Stando a BMF TV, l’aggressore – di origini cecene, mai diventato cittadino francese, classificato come a rischio di radicalizzazione dalle autorità – avrebbe gridato “Allah Akbar”. E sarebbe stato fermato anche il fratello minore.
Se verificato, l’evento è l’ennesima triste conferma del fatto che il jihadismo sia una minaccia ancora viva, ha detto a Formiche.net Arije Antinori, professore di Criminologia e sociologia della devianza alla Sapienza di Roma e membro della European Research Community on Radicalisation. La guerra santa moderna è “caratterizzata da diverse direttrici, anche sul piano pseudo-ideologico, tra nuovi e giovani attori” ma anche mutamenti nella relazione tra società, tecnologia ed entità tradizionali. Senza dimenticare gli attori solitari, “più o meno auto-radicalizzati online, di fatto quasi mai solitari” se si considerano i loro comportamenti in rete.
Nonostante sia un movimento digitale, il fenomeno rimane strettamente collegato al territorio. Negli ultimi anni gli osservatori hanno notato il consolidarsi di un “jihadismo europeo” diverso da quello tradizionale, racconta Antinori. Nonostante la sconfitta territoriale dello Stato Islamico, la sua ideologia sopravvive e si diffonde ancora online – quello che l’esperto definisce “l’Islamic State of Mind, un modus vivendi attraverso la percezione dell’altro come nemico”. E l’ideologia si adatta al contesto culturale: per esempio, spicca un “ruolo più attivo e partecipativo da parte delle donne”, tradizionalmente tenute ai margini delle società islamiche più conservative.
Internet è il mezzo per la diffusione di questo neo-jihadismo. Dal Covid in poi la comunicazione islamista radicale si è adattata alla grammatica dei social e degli utenti più giovani, continua l’esperto, assorbendo la cultura degli influencer e le tecniche di marketing digitale “per riproporre la dicotomia noi-loro, spesso ancorandola al concetto di giustizia”. Così la propaganda passa da comunicazione ibrida, emozionale, che riesce a trasformare la ricerca identitaria e affettiva di un giovane utente in una cultura della violenza adiacente a quella dei giochi online.
“Da qui la necessità di osservare con attenzione, sul piano della prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violenti, le audience più vulnerabili e suscettibili alle narrazioni tossiche più seduttive, come i giovani in generale e i minori stranieri non accompagnati. Si assiste, inoltre, a un effetto-specchio che si determina in una dinamica di reciproca alimentazione tra le infosfere opposte – quella dell’estremismo islamista e dell’estremismo di destra, che contappongono narrazioni jihadiste a quelle islamofobe”.
Possibile, dunque, che il deflagrare della guerra in Medioriente possa aver favorito dei processi di emulazione. E secondo Antinori, la dura risposta israeliana è “esattamente la reazione che l’attacco di Hamas intendeva produrre, soprattutto agli occhi della comunità internazionale, per identificare il popolo ebraico come ‘oppressore sionista’ da colpevolizzare e combattere ad ogni costo”. Lo scopo è produrre combustibile mediatico per alimentare le narrazioni jihadiste e antisemite e ridare vigore a quello scontro ideologico che può sfociare in violenza.
Per l’esperto adesso serve porre particolare attenzione “alla vasta galassia antisemita, tanto online quanto offline”, perché da anni la comunità ebraica è sistematicamente presa di mira da narrazioni convergenti – “quelle riconducibili all’islamismo militante e al jihadismo e quelle che emergono dall’estremismo neo-nazista e neo-fascista, quello marxista-leninista violento, quello cospirazionistico e anti-sistemico, soprattutto di natura memetica”. Le narrazioni rese meme (come l’incitazione allo sterminio degli ebrei) sono particolarmente insidiose perché veicolate sul piano dell’ironia ambigua, violenta e divisiva, cosa che limita la possibilità di individuare e rimuovere il contenuto in maniera automatizzata, rimarca Antinori.
Di conseguenza, conclude l’esperto, “non si possono escludere eventuali azioni violente ai danni dei principali luoghi di frequentazione e culto della comunità ebraica in Occidente”. E il riproporsi di una dinamica di polarizzazione islamofobica “può animare le manifestazioni violente a danno della comunità musulmana”, che a loro volta possono “facilitare inneschi reazionari violenti di carattere antisemita e/o antioccidentale, in un clima di oppressione percepita”. Quest’ultimo è un ingrediente classico della retorica tradizionale jihadista, ricorda Antinori, un filo conduttore degli attentati avvenuti negli ultimi anni in Europa.