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Salario minimo, se a deciderlo è una sentenza. Il commento dell’avv. Fava

La macroscopica inadeguatezza di un salario di 4,60 euro l’ora è indubbia e assolutamente condivisibile; tuttavia, appare azzardato che una simile considerazione venga lasciata ad un Tribunale, il quale si sostituirebbe al ruolo ricoperto dalla contrattazione collettiva, incaricata di aggiornare e rideterminare i minimi tabellari del Ccnl

Due sentenze della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione pubblicate il 2 ottobre scorso, entrambe relative all’applicazione del principio costituzionale della retribuzione sufficiente, di contenuto pressoché identico tra loro, hanno ribadito il dovere del giudice di verificare l’idoneità dei minimi retributivi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi a soddisfare i requisiti indicati dall’articolo 36 della Costituzione, cioè a garantire una retribuzione “sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia”.

Non si può non notare come una statuizione di tale portata potrebbe portare ad una moltiplicazione dei contenziosi nonché all’indebolimento del principio relativo alla certezza del diritto. L’aumento del contenzioso avrebbe, quale immediata conseguenza, il proliferare di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, con una inevitabile ingerenza della magistratura che avocherebbe completamente a sé il ruolo della contrattazione collettiva affidato alle parti sociali.

La macroscopica inadeguatezza di un salario di 4,60 euro l’ora è indubbia e assolutamente condivisibile; tuttavia, appare azzardato che una simile considerazione venga lasciata ad un Tribunale, il quale si sostituirebbe al ruolo ricoperto dalla contrattazione collettiva, incaricata di aggiornare e rideterminare i minimi tabellari da applicare alla categoria di applicazione del relativo Ccnl. La china scivolosa che potrebbe seguire a valutazioni di questo genere risulta essere evidente in quanto il principio di adeguatezza del salario non può essere un indice imposto dall’alto bensì deve essere, in una economia funzionante, deciso dal mercato attraverso la contrattazione collettiva. La stessa Costituzione, infatti, stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.

Gli stessi padri costituenti, dunque, hanno chiarito che le variabili da tenere in considerazione al fine di determinare una retribuzione che possa dirsi “giusta” sono la qualità e la quantità del lavoro svolto, lasciando poi il mercato libero di calare nella realtà tale principio stabilendo i minimi salariali tramite la contrattazione collettiva. Bene avrebbe fatto il giudice, nel caso sopracitato, a ritenere contraria a Costituzione una retribuzione oraria pari a 4,60 euro, demandando poi alla contrattazione collettiva il compito di “correggerla” senza giungere egli stesso ad indicare quale sia, per analogia, il salario minimo da applicare. In altre parole, non appare opportuno che il giudice si sostituisca al ruolo ricoperto storicamente dalle parti sociali e dalla contrattazione collettiva.

Gli stessi assunti possono dirsi validi anche con riferimento all’introduzione di un salario minimo “di Stato”, il quale costituirebbe una completa abdicazione del potere rappresentativo e contrattuale dei sindacati, che si ritroverebbero ad avere un ruolo ancora più marginale. Piuttosto che imporre un salario minimo fisso, il potere giudiziario dovrebbe incoraggiare l’applicazione dei principi di una compensazione adeguata, incentivando i rinnovi dei Ccnl, lasciando, quindi, alle parti sociali il compito di determinare le tariffe salariali specifiche, meglio attrezzate per affrontare le complessità del mercato del lavoro (oltre che ad esserne più a conoscenza). Operando in tal modo, ovvero preservando il ruolo vitale della contrattazione collettiva nella nostra economia, il raggiungimento di un salario equo e dignitoso non appare più un’utopia.

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